TRAMA
Henry Chinaski detto Hank beve, scopa con Jan, tenta di lavorare.
RECENSIONI
Dopo la folgorazione di Kitchen Stories, Bent Hamer si applica all’arte e al genio di Charles Bukowski. Lo fa con rispetto sacrale per l’autore: concedendosi licenze ridotte, ripercorrendo con tenerezza la strada dello scrittore americano, il film non rinnega mai le stimmate, già molto riconoscibili, del suo autore. La camera fissa scruta i volti, li guarda dritto negli occhi, evoca la disperazione solo per mandarla a nozze col grottesco, impugna una lente ghiaccia e disadorna per poi incendiarla con vampate di sentimento insostenibile. Una sfida di grande complessità maneggiare Bukowski nella sua prosa sferzante e caotica, senza trama alcuna, tutta protesa a disegnare il quotidiano illuminandone il volto vacuo e paradossale, tanto assurdo da suonare sarcastico. Al contrario di Storie di ordinaria follia (regia di Marco Ferreri, 1981) – su cui rimane celebre il commento dello scrittore dopo la visione: Questo film buttatelo al cesso – Hamer imbriglia a dovere la materia, impaludandosi in qualche deriva freak di troppo (la rissa tra Hank e il nano) ma restituendo così tutta l’umanità devastata dei suoi personaggi. Lo aiuta un cast sopra ogni lode: Matt Dillon ha creato un miracolo sbronzo e caracollante – occhi sempre bassi tranne in alcune scene chiave (il confronto con i genitori) -, Lili Taylor è una rovina innamorata che si dimostra superiore alla sua intera filmografia. Toccanti e genuini i disadattati di contorno, su cui svetta il sadismo luciferino di Flamand. Non accade nulla di singolare nel film di Hamer: Chinaski semplicemente vive, accompagnato dai versi fuoricampo così orgogliosamente estranei al narrato, e ricalca la sua vasta aneddotica perdente e sfilacciata. Non pretendere nulla, al di fuori di sé stesso, è il pregio più prezioso di Factotum: una storia d’amore e disperazione, dove le prove del primo rifulgono in duetti estremi e commoventi (la sequenza delle piattole è da lacrima) e i segnali della seconda scavano nell’abisso più nero (la prima separazione Hank/Jan in un divino, fluviale pianosequenza). L’ultima scena, l’ennesima birra, mantiene intatto il fragile movimento del reale, dissolvendo bruscamente Hank e il suo film, su questo polveroso viavai calando una lieve sospensione.