TRAMA
La vita di Eva Duarte Perón: orfana infelice, arrampicatrice sociale, primadonna della dittatura, martire o tutte queste cose insieme?
RECENSIONI
La trasposizione su grande schermo del musical di successo (1978) di Andrew Lloyd Webber (musiche) e Tim Rice (testi) doveva, inizialmente, essere diretta da Oliver Stone e (stante la sua sceneggiatura) avrebbe preso una piega più politica, sentenziosa (attraverso la figura di Che Guevara, un Antonio Banderas che sorprende come cantante e che interagisce con tutti come un “grillo parlante”), sarcastica sulle reali intenzioni di questa donna idolatrata dal popolo come una santa benefattrice e stigmatizzata da altri come arrampicatrice e calcolatrice, cui viene giusto riconosciuto il merito di aver regalato un "sogno" all'Argentina. Alan Parker, invece, è uno dei migliori registi di film musicali in circolazione, la sua macchina da presa danza con il montaggio elaborato e, in sinergia con il budget da kolossal (imponenti scene di massa, scenografie e costumi; la “Big Apple” Buenos Aires ricostruita a Budapest), con i frequenti cambi di set dello script, con la fotografia color oro di Dariusz Khondji e con alcune pagine musicali notevoli, offre uno show barocco, magniloquente, epico quanto stimabile nella vitalità che evita lo scollamento fra cantato e finzione drammaturgica, capace di svecchiare un musical del passato senza affidarsi a soluzioni tecniche effettistiche. Quando le musiche sposano il rock misto latino-americano e scorrono immagini violente di repressioni nel sangue, con i militari in marcia, l’autore pare richiamare il suo Pink Floyd–The Wall. Lo spettacolo in sé, forse, avrebbe funzionato ancor meglio concentrandosi sul mélo con apologo emblematico e accentuando la vena favolistica (Evita come moderna “Cenerentola nera", conscia del potere che acquista sposando il “principe” e cinica sull’amore: "Gli amanti si usano a vicenda" è il tema di fondo delle parole di Tim Rice): meglio la prima della seconda parte, che insiste sul patetico, difettosità di Andrew Lloyd Webber, altro personaggio “ambiguo”, sempre diviso fra ammiccamento facile e impegno dotato. Madonna nel ruolo della sua vita (ma il suo timbro vocale pare far fatica a rincorrere le arie operettistiche): Evita è un alter-ego che, infatti, si paragona ad una (pop)star, fra show, tour in Europa, fan e successo. Il governo argentino, che non ha mai gradito il sottotesto dell’opera di Broadway e non ha concesso i permessi per girare in loco, commissionò immediatamente una biografia più agiografica.

La bara di plexiglas ostenta la vittima consacrata al bene (e al male) dell’Argentina, il simbolo di un sogno latinoamericano ricco di sangue e lacrime, l’incipit mummificato di un requiem che sfoglia l’esistenza della signora Perón alla (vana?) ricerca di Evita, la donna nascosta dietro le maschere del potere e della masochistica menzogna.
L’opera di Rice e Webber è ridotta (o elevata, dipende dai punti di vista) a torrenziale pretesto per l’esibizione di una (pri)Madonna assoluta, tanto sfacciata e incontenibile da risultare in perfetta sintonia con l’evocato/invocato spirito del personaggio. Messo di fronte a un simile delirio divistico, Parker non sa (non vuole?) sfruttare appieno la situazione: anziché scavare nell’abisso della messa (e nella messa in abisso), il regista dirige con scarso nerbo il traffico di cantanti e comparse, diluisce i toni cupi a colpi di glamour, confeziona un collage insieme greve ed esangue, che confonde il pop con la didascalia più sfiancante. Belle musiche, saldo professionismo; manca solo il cinema.
