TRAMA
Andrej Romanovic Evilenko è un maestro elementare in Unione Sovietica. Vive con la moglie, è iscritto al partito, non riesce ad accettare il declino del regime comunista negli anni della perestroika. Evilenko in un arco di tempo tra il 1974 ed il 1994 uccide oltre 50 adolescenti, stuprandoli e cibandosi delle loro carni. L’ispettore Vadim Timoruvic Lesiev, una moglie ed una splendida bambina, si mette sulle tracce del “mostro della striscia di bosco”: una sfida agghiacciante sullo sfondo di un sistema in decomposizione.
RECENSIONI
Nella flessione della Storia il passaggio temporale da un’epoca all’altra si accompagna ad un bagaglio di lucida follia; la curva del secolo ‘800 fu graffiata (/griffata) dalla mano di Jack lo Squartatore, la successiva agitata da suicidi millenaristi ed ansia strisciante (…bug?) da finedelmondo, poi fuoco e fiamme in fila indiana che abbiamo tuttora negli occhi. Il tempo della perestroika, il “socialismo dal volto umano” ed il tentativo di riforma di Gorbaciov, in picchiata verso lo scioglimento dell’Unione Sovietica, trova nel mostro di Rostov un simbolo potente: Andrej Romanovic Chikatilo (nel film Evilenko), tra i più prolifici serial killer nell’universo del crimine, capace di toccare verosimilmente la cifra di 52 omicidi (soprattutto adolescenti: perversione, pedofilia, cannibalismo) prima della fine della corsa verso l’esecuzione capitale. L’autorità sovietica in caduta libera, divisa tra istanze di riforma e fede cieca alla bandiera rossa, negava il fatto stesso che il sistema potesse essere intaccato da un assassino seriale, fenomeno esclusivamente americano che segnava il passo nel degrado dei costumi da loro sconosciuto: passeranno anni prima che gli inquirenti colleghino la successione di omicidi ad un’unica mano e si decidano ad usare la psicanalisi per la sua risoluzione (uno dei trucchi preferiti dall’assassino), non considerato metodo scientifico e quindi ritenuto riprovevole. Questa s/Storia, già portata sullo schermo nel ’95 in CITTADINO X di Chris Gerolmo, è riletta dall’esordiente David Grieco, che adatta il suo stesso libro Il comunista che mangiava i bambini. Egli elimina l’orrore e riduce al minimo macchie di sangue abbracciando perlopiù l’allusione e il non detto; preferisce puntare tutto sul valore simbolico del personaggio, capace di incarnare l’intero declino del sistema. Lo psicologo che ne traccia il profilo psicologico è illuminante: l’homo sovieticus, rinchiuso finora in un’unica identità (comunista), diventa una polveriera pronta ad esplodere, di cui Evilenko è “il virus da studiare per trovare l’antidoto”. Il comunismo porta alla devianza mentale? Questo parrebbe, ma non è così semplice: dietro una rigida ideologia (il maestro che spiega agli alunni che il pallone è di tutti) galleggia lo spettro di una perversione sessuale senza fondo, sacrificata solo apparentemente in onore di un modus vivendi. La pellicola si presenta estratta da un quaderno da disegno per poi virare sul viscido adescamento di Evilenko, che incredibilmente nelle sue parole è quasi tenero e genuino: subito si delinea il contorno di una fiaba cupissima, dove l’uomo nero (…rosso?) è all’insieme mefistofelico e placidamente disperato, “il più crudele degli animali” che uccide infine per istinto. Non può fare a meno di divorare le sue vittime, assorbendole così all’interno della sua persona per ritagliare un motivo al suo essere girovagante, per scovare sé stesso negli occhioni di bambino sfigurati da colpi di rasoio (la sconfitta, la perdita e la vacuità che lascia l’atto dell’omicidio introduce delusione, spiegando forse la violenza inaudita). Evilenko è un uomo qualunque (l’incognita di Gerolmo) che, oppresso da una vita famigliare giocata su una menzogna (il tacere dei suoi impulsi, il rifugio dell’ideale), ha ormai rinunciato al sesso in nome di una delicatezza d’animo tutta finta; l’abbraccio schieliano con la moglie potrebbe essere un affettuoso intrigo di fisicità ma trova la sua antitesi nel contatto carnale con i bambini che il mostro uccide, prendendoli per mano, portandoli nei meandri del bosco come un perfetto babau, spogliandoli con i suoi occhi puntati nei loro. Alle sue spalle si installa la rappresentazione di un macrocosmo (attraverso un microcosmo): come un calderone di aberrazioni prossimo all’esplosione, l’Urss non ha scalfito per anni l’immagine del sistema perfetto nel grande gioco della contrapposizione occidentale. Questa irreprensibilità di cartapesta è ormai all’ultima curva, imbrigliata nei suoi stessi anacronismi: impulsi arcaici (la pena di morte) vanno allo scontro frontale con metodi moderni (la psicanalisi), dove le scienze della mente finiscono per costare la vita a chi le esercita. All’insegna della sfida psicologica, di cui il film racconta tre tipologie: quella impari tra Evilenko e le sue vittime, che vanno a morire dopo averlo guardato negli occhi, il confronto boscoso tra l’assassino ed il dottore (giocata sul classico “io sono tuo padre”…), risoltosi in favore del primo come a stampare nel sangue il dogmatismo di una costellazione in fuga dall’evidenza. Infine: lo scontro finale assassino/investigatore –che del dottore ucciso raccoglie crismi ed idee-, da consumarsi tra le pareti bianche dell’interrogatorio, capace di inscenare un agghiacciante doppio spogliarello (fisico e psicologico). E’ questa la sequenza migliore dell’intera pellicola, che ricorda l’egregia conclusione di CITTADINO X: allora il tenebroso investigatore era Stephen Rea, una splendida maschera triste in corpo ed animo, che sfuggiva appena al linciaggio della folla e della coscienza. Qui Marton Csokas, a tratti vagamente imbambolato, scruta nell’abisso nietzschiano per ottenere la prova schiacciante: l’elenco delle vittime del mostro è scolpito nella lacrima dell’investigatore, che piange piuttosto per la disintegrazione di un sogno di purezza. Nella riproposizione romanzata di una storia vera Grieco si diverte a pippare qualche striscia di deja-vù: il detective che teme per la propria famiglia (bambina con occhioni annessa e connessa) è antico paradigma già divinamente declinato in classici come MANHUNTER, così come gli occulti legami tra il killer ed il Kgb (nella realtà mai del tutto chiariti) che sono tirati via con una matita spuntata, e l’insistenza esagerata sulle abilità dell’assassino (le sequenze, alla lunga inverosimili, in cui ipnotizza le vittime). Ma l’affresco, che raggiunge la coralità attraverso la visione soggettiva, è di quelli che convincono: brulli paesaggi, ora spogli ora piovosi, sono specchio dell’anima nazionale in decadenza. Sequenze che suonano terribilmente i tasti della Follia: il tentato approccio iniziale con l’alunna, scabroso cannocchiale su realtà troppo attuali, la contrapposizione tra la mitezza di Evilenko e la sua sagoma insanguinata durante i pasti (il rimando ad Hannibal Lecter non è troppo velato), il devastante impazzimento del soldato che lo osserva cibarsi come metonimia della latente instabilità collettiva. Il mostro Malcom McDowell si supera: due fari azzurri puntati sulla preda, il volto rugoso si contrae a fisarmonica, il pertugio orale si schiude liberando seducenti sillabe maniacali; trenta anni dopo i fasti kubrickiani, ancora una volta insanamente malato (ma non guarirà affatto), rinchiuso nel suo istinto animale oltre ogni possibile gabbia. Evilenko, informa il film, è (dichiarato) morto dal nuovo Stato federale chissacome chissadove: ma allora perché egli ci guarda ancora dritto negli occhi, ondeggiando lentamente tra mimesi facciale e fascinazione psicologica di un gesto teatrale? Il traballamento delle sue grinfie maniacali chiude la rappresentazione oppure la riapre (“ci saranno molti assassini di questo tipo”, dice Lesiev)? Un piccolo grande film che si dibatte nella propria camicia di forza, capace di stordire con la perversione di un uomo uno Stato un sistema, per poi richiudere il cerchio del dipinto complessivo lanciando nella scala dell’efferatezza un devastante to be continued. Con una punta di profonda, autentica disperazione.