Drammatico, Recensione, Sentimentale

EVERLASTING REGRET

Titolo OriginaleChang hen ge
NazioneHong Kong, China
Anno Produzione2005
Durata115'

TRAMA

Shangai. 1947-1981: trentaquattro anni nella vita della splendida Qiyao.

RECENSIONI

I cari “addetti ai lavori” che durante la proiezione per la stampa hanno sbuffato, storto il naso e poi, al termine della séance, accusato il regista di “wongkarwaismo”, forse non sanno che Stanley Kwan, misconosciuto ai più, ha mantenuto fede ad uno stile oggi “confondibile” con quello del regista di In The Mood for Love, in verità maturato e perfezionato anni prima dell’affermazione internazionale del più famoso concittadino. Film come Rouge del 1987, Actress del 1991 con Maggie Cheung e To Hold You Tight del 1997, premiati in vari festival e mai usciti in sala, contengono alcune soluzioni di stile, stratagemmi narrativi già perfezionati ed altre invenzioni proposte in nuce, affinate poi negli anni successivi. Questo Everlasting Regret è un capolavoro straziante benché/perché rarefatto nel racconto e sovraccarico, pittorico nello stile. La protagonista attraversa come un fantasma dannato cinquant’anni di storia cinese alla disperata ricerca di un amore perduto, travolto dai sommovimenti della Storia. I “sostituti” collezionati nel tempo la abbandonano dopo averle confessato il loro (dis)amore, distesi sul letto ed accarezzati da una tenue luce che colora di pastello i volti. Una donna che più non crede, la cui “dissoluzione” viene soltanto suggerita, metonimicamente, dal bottone strappato, segno dell’impossibilità di mostrare il rigor mortis di una fragile vittima già uccisa dal tempo della Storia. Privato e pubblico, storie e Storia non interagiscono, non “dialogo” ma colluttano: le rivoluzioni dell’esterno, non viste o vissute direttamente ma annunciate dalla radio, “violentano” il nidus, separano gli uomini che cercano vanamente di ribellarsi e di continuare a comunicare. Per questo, il fotografo, il “vero” amore della protagonista, può solo esprimersi attraverso un bozzetto, un piccolo disegno che “dice” quanto e più le parole non possono più dire. I repentini salti temporali suggeriscono, allontanando il sospetto della maniera, l’incalzante e discontinuo incedere della storia: volti invecchiati, spazi della memoria riconoscibili, amanti che ritornano e che si dissolvono nel nulla. L’idea di “liquidare” i personaggi con delle laconiche didascalie (es: X visse a Honk Kong. Morì nel 2001) ha del sublime, così come la carezza che la protagonista dona al marito malaticcio sposato per “coprire” un vero, “falso” amore. Il miglior film del concorso.

Il cigno che muore

Eterno come il rimorso di una donna bacchettata dal fato, eterno come il riflusso degli amanti nel suo letto, eterno come il Tempo che uccide la sua pupilla, si riavvita su sé stesso, concede un attimo ancora soltanto per guardarsi indietro. EVERLASTING REGRET è una lieve sinfonia che ingoia occhi, labbra, gesti ma soprattutto corpi: corpi inconsapevoli che amano, piangono e ridono, incrociandosi dolcemente e perdendosi per sempre come iscritti nell’ordine naturale delle cose. Travestito da racconto evolutivo di maturazione di un Paese, sul parallelo gemello Shangai/Hong Kong, modellato su uno splendido corpo di donna puntualmente lacerato, ferito, abbandonato dai suoi uomini, il prodigio orientale è invece un sano decalogo di regia: scansando educatamente il contesto, il mero elemento tramico ed ogni sua implicazione il film è capace di estrarre una sequenza memorabile dal solo movimento di una mano a sfiorare una spalla, un intenso sguardo femminile, capelli sciolti nel vento. Inchinando il racconto ad una cinepresa mai lineare, ostinatamente obliqua con personaggi inquadrati di sbieco, da angoli opposti attraverso ricamati intarsi di luce (la fotografia di Huang Lian è qualcosa che non si vedeva da anni), Stanley Kwan firma un’opera suprema priva d’imperfezioni, resuscitando l’avvicente tradizione del melò ma piegandola alla ragione di un personalissimo stile. Tra lacrima e risata, attraversando le stagioni della vita senza finirne preda l’autore manovra magnificamente la tecnica del racconto ellittico; le varie tessere narratologiche sono reciprocamente accostate da didascalie letterarie – una sorta di epitaffio ricorrente -  per muoversi su unico tessuto dall’adolescenza alla scomparsa di Qiyao, in contrapposizione con Shangai come autentico luogo con l’anima (Una città non invecchia mai). Il cinema secondo il regista è un viaggio nel tempo conosciuto solo per repentine istantanee, un’esperienza forsennata che uccide sé stessa nel finale di abbagliante splendore, giocato sull’emozionante successione (nuovamente antilineare) morte – dolore – ricordo. Lecito piangere un fiume di singhiozzi. Kwan, scattato automaticamente il paragone con Wong Kar-Wai, prosciuga in realtà l’ultima maniera e la deriva pleonastica di questi, rimanendo sempre essenziale, facendo del suo film una continua fontana di spunti inesauribile alla prima visione. Sottovalutato dalla critica (prevedibile) ed ignorato dalla giuria (scandaloso), brilla dalla Cina il gioiello del Festival.