TRAMA
Adam è uno sceneggiatore col blocco dello scrittore che vive a Londra in un condominio disabitato. Una sera gli bussa alla porta Harry, un giovane vicino che si sente solo e vorrebbe trascorrere la notte in compagnia…
RECENSIONI
Estranei, titoli di testa. Il profilo di Adam emerge lentamente, il suo volto, i suoi occhi, suoi colori sono giustapposti a quelli della città che si risveglia. Scrittore e sceneggiatore, Adam guarda fuori, oltre le immobili crisi metropolitane, è lontano, chiuso dietro un vetro, le sue sembianze sfumate incontrano il cielo e il sole che sorge suggellando, nel nuovo giorno, una nuova stasi, la solitudine siderale dentro un appartamento che ha fatto presto a diventare un mondo, un riparo, una galera.
C'è Weekend, in controluce: c'è ancora una meta-sospensione, e c'è la coppia, l'omosessualità, una relazione in potenza, di forza taumaturgica quanto il gesto dello scrivere. Soprattutto, nella quinta regia cinematografica di Andrew Haigh, c'è un cortocircuito di immagini da riparare, che invadono e si sovrappongono alla quotidianità; riflessi desiderati, proiezioni sognate, emulsioni rarefatte che protraggono per Adam una separazione dalla realtà, e che al contempo, proprio per dissolvere quella distanza, alla realtà si mescolano, tentano di farla implodere, vi si sovrappongono: il suo corpo alla città, il suo volto a quello della madre, la sua ombra agli spettri che ha evocato.
Come in 45 anni, altro capolavoro dell'autore britannico, una fotografia provoca l'irruzione del passato nel presente, ma stavolta per scavarci una via di sopravvivenza, a quella solitudine potenziata, espansa semplicemente da ciò che si è: «La differenza che avevo sempre sentito con la mia famiglia ecco che si certificava», confida Harry – Paul Mescal, vicino di condominio, l'unico, pare – parlando del coming out con i suoi. I genitori di Adam, invece, sono morti che lui aveva 12 anni, e per lui è rimasta irrealizzabile la possibilità di vedersi con i loro occhi, di cercare in loro una legittimazione alla propria esistenza. Il suo è un interrogativo cristallizzato nel tempo, condannato dalla tragedia; e allora non poteva che diventare scrittore, dapprima per isolarsi e proteggersi, poi per tentare una riparazione, nei faccia a faccia domestici di un'umanissima ghost story.
«Gli scrittori sanno meno del mondo reale di chiunque altro», perciò Adam proverà a sganciarsi da se stesso, dalla sacca amniotica che lo soffoca, e a trasformarla in una zona di nascita (racconta tutto questo, nelle microespressioni, nei lineamenti che si accartocciano, nella disperazione bambina, un Andrew Scott sovrumano). Madre (Claire Foy) e padre (Jamie Bell), così come i ritratti Eighties permettono di ricordarli, affiorano sull'uscio della casa d'infanzia, siedono tra le pagine, accolgono e raccolgono, lavorano per capire e capirsi, provano a risanare cadute, mancanze, errori, vaghi eppur fatidici momenti nel tempo, sensazioni calcificate e ancora ostacolanti, in un processo di bonifica dove gli anni si squagliano, si torcono, si rimescolano nell'esperienza fittizia, sempre filtrata dal trauma («Mi dispiace per i tuoi». «È stato tanto tempo fa». «Non credo che questo importi») e dalla volontà narrativa. La pagina bianca, la scrittura per Adam sono un laboratorio mentale, onirico, di autocoscienza critica, nell'intimità assoluta che Haigh sa far trasudare dall'inquadratura; in un dialogo privato fuori dalla realtà, per reincarnarsi (The Discarnates era l'adattamento che del romanzo Strangers di Taichi Yamada fece Nobuhiko Obayashi, in artefatti, coloratissimi colori caldi, un balocco orrorifico di fantasmagorie ectoplasmiche in rima col suo stile irriducibile).
Dalla verifica del passato a un'ipotesi di futuro (Harry: l'Altro da sé, l'amante, ma anche un gemello, un fratello, un alter ego) per guarire il presente: il movimento di Adam è tutto nella sua testa finché attraverso l'atto creativo – sempre un atto d'amore – non si lascia evadere da quell'adultità infantile per rendersi in grado di dare, e non più chiedere, di accompagnare, e non più di essere perduto. Di amare, e quindi di consegnarsi incondizionatamente. Per aprire la porta e oltrepassarne un'altra. Per trovare una pace, nel sublime finale, di rara bellezza: The Power of Love, in una camera da letto che diventa universo di amanti, infinito per se stesso – come in Fin de siglo di Lucio Castro (anch'esso un film mobile spaziotemporalmente, col favore e la fluttazione del sentimento) era Space Age Love Song, un momento eterno in un soggiorno.
Oltre una nuova soglia, in quel talamo che intreccia eros e thanatos, Adam e Harry possono diventare, insieme, dentro un abbraccio di immensa Pietà, una costellazione di stelle – che, quando e benché morte, dunque impossibili, non perdono di luce – e di finestre che, in un buio infinito, una dopo l'altra, finalmente si accendono