TRAMA
Il 16 marzo 1978, giorno in cui il nuovo governo guidato da Giulio Andreotti stava per essere presentato in Parlamento per ottenere la fiducia, l’auto di Aldo Moro, allora presidente della Democrazia Cristiana, fu intercettata e bloccata in via Mario Fani a Roma da un nucleo armato delle Brigate Rosse.
RECENSIONI
Non si tratta, ovvio, di cronaca, né di dietrologia: la miniserie diretta da Bellocchio ha prevedibilmente altre ambizioni. Certo, non per questo essa si tira indietro nel dire chiaramente che il deep state in Italia all’epoca c’era eccome (piccoli potentati DC, generali piduisti al ministero dell’Interno e quant’altro), e aveva tutto l’interesse a che Moro ci lasciasse la pelle.
A queste micragnosità, la serie non riserva che un tono farsesco, grottesco anzi. Dopodiché le lascia perdere. Diverso il discorso per la triade Andreotti-Cossiga-Zaccagnini: uno dei presupposti principali della serie è appunto la loro distinzione dal deep state. Loro Moro lo vogliono salvare eccome, ma non lo possono. E non lo possono perché per farlo devono ammettere che il loro potere ha grossi, enormi limiti: condicio sine qua non per trattare coi terroristi. E non lo vogliono ammettere, pena la disgregazione alle fondamenta del loro potere stesso. Quei tre si trovano dunque ad attraversare un punto di non ritorno della politica italiana: detenere il potere comincia a coincidere con l’apparenza del potere. Il potere si svuota, si scopre impotente, e gli rimane solo l’immagine del potere, unica foglia di fico che possa coprire il vuoto al centro del potere, e che dunque diventa essa stessa il potere, letteralmente e interamente.
Da questa contraddizione, Cossiga in particolare finisce completamente schiacciato: figura shakesperiana, perché ancora tragica e già compiutamente nevrotica, vuole salvare Moro (cui deve tutto) ma non vuole sacrificare la faccia per farlo, non vuole cedere un millimetro di controllo. Come fisiologica conseguenza, da lì in poi passa al lato oscuro. Quando, poco dopo il rapimento, prepara le dimissioni perché “comunque vada, la mia carriera politica finisce qui”, bisogna prenderlo alla lettera: quando verrà eletto Presidente della Repubblica nel 1985, il suo campo non sarà più quello della politica. Questo perché, con la morte di Moro, la politica italiana diventa qualcosa di diverso dalla politica stessa in senso proprio: diventa il luogo della coincidenza tra il potere e la simulazione del potere. Senza più la politica, virtualmente morta con Moro.
Nei medesimi anni, comincia a delinearsi la forma simbolica di questa coincidenza: la fiction televisiva. Soprattutto nella sua variante biografica (le vite dei papi, le vite dei santi, le vite delle celebrità etc.), la fiction è un colossale rituale di massa, attraverso cui viene riconfermato ciò che di un determinato personaggio già si sa pubblicamente, e attraverso questa riconferma sempre rinnovata viene celebrata e rinforzata la fede collettiva nella coincidenza tra il “quid” che rende speciale un certo personaggio, e la sua immagine pubblica, la quale in tal modo assorbe la sostanza del personaggio fino a svuotarla completamente. Attraverso questa quotidiana, ossessiva ritualità, si rinsalda inconsciamente il nuovo, fondamentale presupposto del vivere sociale, che è la costruzione della propria immagine pubblica come unica ma indispensabile maschera del vuoto di potere privato al centro di ogni soggetto, vuoto che trova il proprio regolare corrispettivo in una rappresentanza politica il cui potere è ormai arrivato ad essere nulla più della mera apparenza del potere.
Esterno notte è una decostruzione, in senso altrettanto culinario che filosofico, del dispositivo politico-spettacolare dominante nell’Italia degli ultimi decenni, che è appunto la fiction televisiva. Se il rituale collettivo che è la fiction occulta i nessi tra spettacolo, politica e spettatorialità, Esterno notte questi tre livelli li dispone in bella vista uno accanto all’altro. Al suo cuore, ovvero nel terzo episodio, abbiamo l’incredibile mutare di Paolo VI nel santino di se stesso, e quindi nella fiction di se stesso. Il pontefice che guarda alla TV, all’inizio dell’episodio, la via crucis a cui non poté partecipare per ragioni di salute, è già uno svelamento significativo del meccanismo che regge le fiction: lo spettatore contempla l’assenza del proprio agire sociale riconoscendo, sullo schermo, un’analoga assenza in un personaggio svuotato di tutto tranne che della propria immagine socialmente condivisa e concordata. Tuttavia, col moltiplicarsi delle esche drammaturgiche di grana grossa (il tira e molla con gli emissari del vaticano che provano a mediare tra Stato e terroristi), la decostruzione della fiction comincia a far spazio alla fiction vera e propria, mutazione sigillata nell’ultima parte dell’episodio da un Paolo VI che, scrivendo la famosa lettera del “semplicemente, senza condizioni”, risolve i propri crucci con la stessa “magica”, improvvisa bruschezza delle non-transizioni delle fiction. Il Papa, insomma, inizialmente umanizzato e persino reso analogo allo spettatore cui la fiction chiede di identificarsi, sparisce dietro la propria agiografia.
Per poterla decostruire, Esterno notte fagocita al proprio interno la forma fiction: il quarto episodio soprattutto, quello con al centro i terroristi, è in tutto e per tutto una fiction, e di quelle imbarazzanti. Poi però ributta in faccia allo spettatore la triangolazione spettacolo-spettatore-politica il cui occultamento è la funzione stessa delle fiction. Per funzionare, la fiction installa davanti a sé due compresenti spettatori ideali: uno che vede, o sa, il vuoto privato al fondo della costruzione e della perpetua conferma rituale dell’immagine pubblica che lo copra, e uno che invece scambia, o finge di scambiare, quella costruzione come una necessità intrinseca, ineludibile. In altre parole, le fiction allo stesso tempo rivelano e rimuovono (sostituendolo con la costruzione cosciente dell’immagine pubblica) il vuoto di potere al centro del personaggio in questione, della vita politica e della società tutta. Esterno notte rispedisce al mittente, ovvero restituisce allo sguardo dello spettatore, i due compresenti spettatori ideali della fiction: la moglie di Moro, al centro del geniale quinto episodio, ripercorre il passato col marito e si rende conto perfettamente che anche prima della catastrofe la vita col marito era una non-vita, dove lui pensava a cose tipo la cappella di famiglia al cimitero, o comunque era assente dalla vita di famiglia; Cossiga, al centro del superlativo secondo episodio, sogna un Moro salvato in extremis che lo metta davanti alle proprie responsabilità, ma questo crogiolarsi nelle proprie colpe non fa che portarlo ad aggrapparsi sempre di più al potere, nonostante il potere sia nel frattempo diventato la mera immagine di se stesso. La fiction sollecita inconsciamente lo spettatore “modello moglie di Moro”, consapevole del vuoto privato al centro del meccanismo, affinché a livello cosciente si affermi invece lo spettatore “modello Cossiga”, convinto che non ci sia alternativa alla costruzione artefatta dell’immagine pubblica. Esterno notte inceppa deliberatamente il meccanismo mettendo lo spettatore-moglie-di-Moro e lo spettatore-Cossiga uno a fianco dell’altro, sottoponendo alla piena consapevolezza dello spettatore questa schiza al fondo del funzionamento delle fiction, e che il funzionamento stesso delle fiction occulta.
Se in questa miniserie il tono più orizzontale e informativo si compenetra con gli eccessi espressivi, con gli spasmi teatrali del rimosso che erutta alla superficie a cui lo stile bellocchiano ci ha abituato da decenni, non è per andare “contro” la fiction: piuttosto, è un tentativo di decostruirla per recuperarne il nucleo utopico originario, ovvero la presa di coscienza collettiva, con annesso potenziale civico, del vuoto al centro della macchina sociale (vuoto che, facendo deragliare le distinzioni identitarie, è in fondo il presupposto stesso di quella sospensione delle distinzioni identitarie che fu il compromesso storico), senza che ciò si traduca automaticamente nell’elevare a destino privo di alternative la necessità, per occultarlo, di un’universalmente diffusa costruzione artefatta della propria immagine pubblica. Tale nucleo utopico fece la propria comparsa per la prima volta in occasione del caso Moro, primo grande esercizio collettivo di riconoscimento della propria impotenza collettiva; tre anni dopo, prima che incombesse l’era delle fiction a istituzionalizzare l’aggrapparsi all’immagine costruita del potere come forma terminale di quest’ultimo, ci fu anche Vermicino a ripetere la catarsi collettiva del caso Moro. Ma in fondo Vermicino stesso era già contenuto idealmente nel caso Moro, e Bellocchio stesso sembra esserne consapevole, dal momento che insiste più volte sulle operazioni di ricerca del cadavere di Moro nel lago della Duchessa, le cui immagini non possono non ricordare quelle della tragedia del 1981.