Documentario, Evento, Recensione, Sala

ESSERE E AVERE

Titolo OriginaleEtre et Avoir
NazioneFrancia
Anno Produzione2002
Durata104'
Interpreti

TRAMA

Un intero anno scolastico nella classe del maestro Lopez, in un villaggio dell’Alvernia, Saint-Etienne sur Usson.

RECENSIONI

Riconciliamoci col cinema godendoci uno dei titoli chiave di questa stagione, uno di quei film troppo belli per poter avere una distribuzione capillare, un'opera che, se la RAI fosse sul serio un servizio pubblico, manderebbe in prima serata con buona pace di tette, culi, filmacci ed ectoplasmi molesti che imperversano di solito a quell'ora. Essere e avere è un affresco magistrale e vibrante che racconta di una realtà ancora esistente in Francia, quella delle scuole con classi uniche in cui, soprattutto in piccole cittadine e villaggi, vengono raggruppati alunni di età diverse, una realtà percorsa da uno sguardo che di documentaristico ha solo l'approccio. Ha del miracoloso la delicatezza che Philibert dimostra nel rappresentare questo piccolo mondo, perché è evidente che un risultato di tale potente e toccante semplicità sia frutto di uno studio accuratissimo, un lavoro che ha la struttura e la solida levità di una sinfonia: i giorni di questa scolaresca e del loro maestro vengono mostrati  saltando da un volto all'altro, da una voce o una situazione a un sorriso o una lacrima, alternandoli con lo spaccato ambientale nel quale si svolge l'esistenza di questa comunità; si rimane letteralmente ipnotizzati dai frammenti che compongono Essere e avere (il titolo fa riferimento a una nota filastrocca), tessere di un mosaico che racconta di un'umanità che attraversa le stagioni tra il lavoro e le piccole cose di tutti giorni, miniature dense che, se hanno momenti contemplativi che ricordano i suggestivi scorci dei film del nostro Piavoli, dall'altro non sono preda del ricatto dell'immagine attraente, badando soprattutto all'armonia del quadro d'insieme.
Accattivante non è bello e dunque non solo dolci smorfie e esilaranti strafalcioni, ma soprattutto disobbedienze, capricci, disciplina e metodo, composizione di litigi, il disorientamento e il pianto per la malattia di un genitore, lo svolgimento dei compiti in casa - in cui una moltiplicazione può diventare origine di un comicissimo consiglio di famiglia -, l'incomunicabilità della "difficile" Nathalie. Tutto appare, nello stesso tempo, naturale e ricercato e in questo accuratissimo film l'intervento del maestro Lopez che parla di sé e del suo lavoro costituisce una parentesi che sottolinea bene il particolare, ibrido carattere di Essere e avere. Così il regista: «Nei miei film cerco sempre di raccontare una storia, di «trascendere» la realtà immediata. Provo a stimolare l'immaginario, partendo dai luoghi, dai personaggi, dalle situazioni che riprendo. Insomma, più che fare dei film «su», cerco piuttosto di fare dei film «con» ed è forse anche per questo che il mio lavoro non è molto distante dalla fiction: dopo poco, lo spettatore si sente «con» i personaggi che riprendo e ne condivide i momenti di difficoltà e di gioia».
Dopo Nel paese dei sordi (altro piccolo, memorabile gioiello), ancora un ritratto di un'umanità marginale, nel micropianeta sperduto di un'aula sul quale, all'inizio, come animali primordiali, hanno camminato due tartarughe dell'acquario («Educazione è lentezza, attendere, farsi carico» dice ancora Philibert), cui il regista è arrivato dopo un travaglio lunghissimo di produzione e postproduzione (le quasi due ore di durata sono il perfetto distillato di sessanta di girato); ancora uno sguardo acuto che sa afferrare i meccanismi di una realtà che viene rappresentata con grazia infinita e nessuna retorica, attraverso l'affermazione di un'idea personalissima di cinema che lascia ammirati per chiarezza e coerenza.

Se c’è una cosa difficile da misurare, è proprio la distanza millimetrica che separa il film documentario dal film di fiction. E credo che, in fin dei conti, non sia neppure tanto importante perdersi dietro la ristrettezza delle “definizioni” e il rigore dei “generi”. In fondo, quello che il documentarismo ha sempre ricercato è la realtà non in quanto quotidianità ma in quanto esemplarità. Non ci serve a nulla la vita, se non è vita esemplare. E la vita ha una caratteristica che la rende asettica all’attacco del virus del cinema: la vita si può impressionare sulla pellicola, ma non si può “tagliare”. Il fatto è che la vita, semplicemente, non ha senso. O meglio, per tirare in ballo la metafora, la vita è un film che non conosce il montaggio. Può darsi che solo la morte restituisca il senso alla vita, come il montaggio (il taglio della storia) conferisce un senso ai metri di pellicola che sono passati sotto gli occhi indifferenti di uno spettacolo, quello del reale, che non riflette alcuna semantica. Tanto meno la semantica dei generi cinematografici. Dunque la realtà in quanto assoluto, o per dirla con le parole di Nicolas Philibert: “Il riflesso diretto di questa distanza”. Una distanza che non misura la realtà dalla finzione, ma la realtà dal senso. Essere e avere riesce, quindi, a farsi interprete di questo weltanschauung, riesce nell’intento di travalicare il dato spicciolo della cronaca, suscitando emozioni che attingono ad un livello diverso e assoluto? Sì e no. Sì, Philibert riesce a radiografare una delle realtà più commoventi e sincere della storia del documentarismo. No, Essere e avere partecipa dell’assoluto, ma vi giunge attraverso il “documento”, al di là dello stile e dell’impronta cinematografica che Philibert ha “imposto” al suo racconto. Il documentarismo narrativo e antropologico di Nicolas Philibert è basato su due elementi: la storia (“Anche se giro documentari, cerco innanzi tutto di raccontare delle storie”) e i personaggi (“rendere ogni bambino identificabile e […] farne un "personaggio" del film”). La storia di Essere e avere è l’elemento più debole del film. L’idea di partenza era un’altra (fare un film sulle difficoltà degli agricoltori francesi), la trama è esile e prevedibile, il tema è unico (il mestiere dell’apprendere dal punto di vista dei bambini e del loro maestro), la struttura del racconto ha la forma di una serie analitica di quadri didascalici. Ma la storia è debole proprio perché il dato reale da cui parte è troppo forte per essere ri(pro)dotto nella forma della fiction. Il grande merito di Philibert è stato quello di registrare un’epifania dell’assoluto attraverso il dato reale, ovvero, essere stato al momento giusto nel posto giusto, e soprattutto, aver avuto il coraggio (e i mezzi) per abbandonare ogni precedente progetto e aderire completamente alla realtà che andava svolgendosi sotto i suoi occhi di esperto ricognitore. I bambini della classe, che sotto la guida sapiente di un maestro severo ma buono, incominciano a muovere i primi passi in un mondo enorme e imparano a conoscerlo, sono in grado, da soli, di svilire ogni ricorso alla manipolazione significante. Lo sa bene Philibert che insiste più volte sulla necessità di non “ostruire”, con la presenza fisica del mezzo, la naturale evoluzione di questo fenomeno esemplare di vita nel suo corso (viene in mente l’acuto di Vertov: “viva la vita così com’è realmente”). In questo senso le lunghe ricerche svolte per selezionare la classe di bambini (tra 400 candidature), con la giusta alchimia degli alunni e la presenza di un maestro carismatico, stanno a dimostrare l’enorme capacità di vedere nella vita e di appassionarsi completamente ai suoi protagonisti che possiede Nicolas Philibert. Ma se da una parte gli accorgimenti tecnici sono ridotti al minimo (nessuna illuminazione artificiale, strumentazione e troupe minima), dall’altra non si può condividere fino in fondo (esigenza didattica in un film dichiaratamente non didattico?) il ricorso alla messa in scena di facili metafore (la tartaruga nel suo faticoso avvicinamento a un mappamondo, la mano di un bambino che non riesce ad afferrare un mondo che scorre forsennato e indifferente oltre il vetro di un finestrino) e l’utilizzo di tecniche della fiction (la colonna sonora che fa capolino in alcune scene rovinando uno splendido silenzio). Quando la registrazione della realtà è sufficiente a se stessa, i grandi maestri hanno insegnato che è d’uopo occuparsi d’altro: della sperimentazione tecnica (Dziga Vertov), della riflessione metafilmica (Kiarostami), altrimenti si rischia di usare violenza ad un paesaggio naturale e umano che la fiction (a qualsiasi livello) è solo in grado di tagliare su misura per il coinvolgimento del grande pubblico (in questo Philibert pecca quanto Michael Winterbottom). Dopo il lirismo di Robert Flaherty e l’impegno civile di Grieson, il testimone del documentarismo passa alla Francia, con la straordinaria testimonianza di Philibert. Anche se il documentario più bello dell’anno passato rimane De l’autre côté di Chantal Akerman (un’altra francese). Ma c’è qualcosa di magico nel film di Philibert: è la spontaneità e la sincerità dei suoi commoventi protagonisti, i bambini della classe e il loro maestro, sono loro la manifestazione di un assoluto da non perdere per nessun motivo. Parafrasando l’acuta definizione di Dario Zonta[5] a proposito dei film dei Dardenne (anch’essi francesi), potrei affermare che Essere e avere di Nicolas Philibert è una ricostruzione del cinema attraverso l’artificio della realtà. Ma una definizione non è mai abbastanza per nessun film, figuriamoci per un film che rimarrà a lungo nel cuore degli spettatori.