TRAMA
Sei unici sopravvissuti variamente traumatizzati vengono attirati nell’escape room più immersiva mai progettata. Talmente immersiva da uccidere i suoi concorrenti, per la gioia degli spettatori.
RECENSIONI
Un po’ Saw, un po’ The Game, Escape Room riesce a sfuggire alla trappola della medie(/ocri)tà blockbuster grazie a una sufficientemente sapida autoironia dalle parti di Auguri per la tua morte. Senza pretese di originalità e sempre privilegiando la spettacolarità (che gli ha garantito l’ottimo incasso di oltre 150 milioni a fronte di un budget di 9), il film incardina infatti una non scontata riflessione metatestuale sulle forme del cinema di cassetta e dunque sull’uomo contemporaneo consumatore di immagini. I fantomatici voyeur che guardano lottare per la sopravvivenza sei (solo apparentemente) nuove declinazioni dell’uomo (solo apparentemente) non tanto qualunque, sono – ça va sans dire – il pubblico del film stesso, cui non si teme di mostrare il gioco in tutta la sua o-scenità (forti di una regia che, sul piano primario, sa mantenere a livelli apprezzabili la tensione, scongiurando per lo più la noia).
Emblematico come ogni incipit che si rispetti, il flashforward della prima scena: si annuncia spavaldo come (sotto)fin(al)e (mendace), tappezzando la stanza-dispositivo di “acta est fabula” (“lo spettacolo è finito”, ma si potrebbe osare un “la (solita) storia è stata eseguita”) e “mors (tua) mihi lucrum” (morte da cui come da archetipo i protagonisti risorgono redenti ed evoluti), prima di distruggere, fagocitare, consumare l’immagine della stanza-dispositivo stessa, come fa(ra)nno tutte le precedenti. Segue il titolo – che estende l’orizzonte comparendo su un plongée aereo metropolitano (la realtà presente, appiattita), sicuramente con maggiore eleganza rispetto alla ridicola didascalia dell’anagramma Wootan Yu = No way out – e quindi la presentazione dei personaggi, di cui si insiste a telefonare ulteriormente l’ordine di morte tralasciando manifestamente di approfondire i più sacrificabili (tra cui chiaramente il nerd antipatico che per primo annega beffardamente in un bagno di realtà dopo aver lodato l’immersività dell’esperienza) e di cui si fa riconoscere allo stesso coprotagonista la natura di personaggi tipici, veri cliché da film di genere. Ogni meccanismo di empatia è così annullato, per mettere al centro il desiderio vorace dello spettatore di ingurgitare nuove stanze, nuove storie, nuovi presenti sempre uguali a sé stessi nel tentativo di riuscire infine a sfuggire all’incubo della piatta reiterazione (la vera trappola: il logo degli aguzzini è un loop escheriano), della lotta non di classe ma tra pari (per il risibile premio di 10.000 dollari), dello sguardo costante sulle vite degli altri che plasma il nuovo immaginario (“a boxseat(,) for life’s (the) ultimate drama”) e rende impossibile il loro cambiamento (per l’effetto Zenone quantistico).
L’immancabile concatenazione di sottofinali prelude sardonicamente a un sequel già in lavorazione, ci auguriamo perpetuante (mar)motteggiamenti on the edge.
Ringrazio Giulio Sangiorgio e le sue sempre illuminanti prospettive sul cinema d’oggi (su cui non bisogna scatarrare).