TRAMA
Illinois 1931. Michael Sullivan, gangster alle dipendenze del boss John Rooney, sembrerebbe condurre una vita normale: ha una moglie e due figli. Questi ultimi non conoscono il lavoro del padre. Una notte Michael jr, il figlio maggiore, segue il gangster e assiste a un’esecuzione.
RECENSIONI
Regista teatrale di successo (la stampa ha dato ampio risalto alle nudità di Nicole Kidman in "The blue room"), Sam Mendes è passato al cinema ottenendo una vera e propria consacrazione: pioggia di Oscar e folle oceaniche di spettatori per il sopravvalutato "American Beauty". Alla non facile prova dell'opera seconda, le aspettative non restano deluse, nonostante qualche riserva.
"Road to perdition" si prenota già come sicuro candidato alla prossima edizione degli Oscar. Eh sì, perché è il classico filmone hollywoodiano costruito con competenza e innegabile talento. La storia unisce il racconto di formazione con le vendette mafiose nella Chicago degli anni trenta, quella popolata solo da gangster e dark lady (che qui però sono assenti). La sceneggiatura è di quelle ad orologeria, che al ventottesimo minuto prevedono un colpo di scena e rendono circolare il racconto. Si sfilaccia un po' nella parte finale, con qualche ridondanza di troppo, ma è supportata da una regia davvero strepitosa. Sam Mendes trasforma le scene più prevedibili in una gioia per gli occhi, con punti di vista interessanti ed efficaci soluzioni visive di ispirazione quasi pittorica. Si percepisce un'aria da primo della classe al banco di prova, ma il regista riesce a dosare con equilibrio il talento per la messa in scena con la forza del racconto. Ton Hanks lavora di sottrazione e riesce comunque a comunicare lo spessore del suo personaggio. Paul Newman trova finalmente modo di risfoderare il suo carisma e si fa notare Daniel Craig per la maschera da clown del suo personaggio, sempre sorridente ma lucidamente folle. Jude Law conferma le sue doti istrioniche, anche se il suo interessante personaggio rischia di essere un po' sopra le righe, quasi ridotto a stereotipo nel finale. Tra le scene indimenticabili, la sparatoria muta sotto la pioggia, con il solo commento musicale di Thomas Newman che la trasforma in una sorta di tragico balletto. Peccato per la conclusione esageratamente hollywoodiana, prevedibile e didascalica, che ancora una volta Sam Mendes riesce a riscattare (ma non a salvare) con la sua abilità registica.
Cinema di impianto tradizionale, sicuramente un po' ruffiano nelle scelte narrative, ma solido e ben fatto. Meglio sicuramente della tutto sommato scontata indagine sociale di "American beauty".
Il gangster posa rosario e pistola sopra il letto. Alla ricerca del padre, il figlio lo scruta alla fine di un buio corridoio. La distanza che li separa è la strada verso (la) Perdizione, un periglioso e incerto itinerario in cui Perdition (la città della salvezza) potrebbe essere sinonimo di dannazione. Mendes reitera il quesito principale di American Beauty: se non esistono eroi positivi, come tracciare il confine fra Bene e Male? Il cullante rumore del mare non garantisce la tranquillità, copre soltanto il passo felpato della morte violenta. La pioggia incessante mette il silenziatore ai corpi che cadono, senza impedirne la rovina: chi non è schiavo dell’evidenza può permettersi di voltare le spalle all’interpretazione fenomenologica (Paul Newman, in una magnifica sequenza) o intuire la rettitudine oltre il gesto immorale (il figlio di Tom Hanks). Gli altri si specchiano ma non vedono (il figlio di Newman). Da Nemico Pubblico, Il Padrino, C'era una Volta in America, fino al libro grafico di Max Allan Collins e Rayner Richard Piers da cui il film è tratto, la comunità malavitosa è un universo con etica e codici a parte: il giovane protagonista cresce fra veglie funebri e delitti. Per fuggire da una casa trasformatasi in sepolcro, dovrà abbracciare il "Cavaliere Solitario" che, come nei fumetti, tiene lo sceriffo sotto tiro. Mendes impreziosisce una trama modulare alternando il non detto di sguardi e gesti (interpreti esemplari) alla sottolineatura figurativa, lo schizzo fumettistico (la maschera del "becchino" Jude Law) all’appassionante tono epico, la tragedia alla parabola (un classico l’antagonismo fra figlio naturale ed eletto), il romanzo di formazione alla commedia (all’inizio del secondo tempo diventa Paper Moon), il preziosismo formale al componimento autorale (complici le tonalità depresse e autunnali della fotografia di Conrad Hall). Dubbi amletici: padri divisi fra senso di giustizia e legami di sangue, disposti a giurare fedeltà a chi li tradisce, a colpire il cuore corrotto nella sua unica zona sensibile (l’interesse materiale), a commettere un parricidio per purificare la strada percorsa dai figli verso (la) Perdizione.
Con “Era mio padre” Sam Mendes affronta il genere noir, utilizzando un registro cromatico assolutamente privo di colori, e sfruttando la forza simbolica della luce e delle ombre: eterna metafora della contrapposizione tra bene e male. “Era mio padre” potrebbe essere definito (parafrasando il titolo di un capolavoro di un altro genere: l’orrore) come una sinfonia della luce. Una sinfonia della luce che intende orchestrare lo spazio scenico e i personaggi che lo abitano attraverso un forte e insistito dualismo cromatico. Lo spazio è, infatti, decisamente bipartito, sia in termini assoluti, esterni (chiari) e interni (scuri); sia in termini relativi, negli interni delle abitazioni ci sono luoghi deputati alla salvezza dei personaggi (immersi nelle ombre, o protetti dai riflessi di un vetro), e luoghi dove invece la vita dei personaggi è messa in pericolo (molto illuminati). In questo modo il vecchio dualismo tra luce e ombra, sia nella sua declinazione più classica (“Nosferatu”), sia in quella fantastica (“Il tredicesimo guerriero”, “Il Signore degli anelli”) che fantascientifica (“Aliens”, “Pitch Black”), viene ribaltata: la luce porta la morte, le ombre portano la salvezza. Da una parte Mendes, insieme al direttore della fotografia Conrad Hall, allestisce una galleria di esterni dove la luce azzera completamente la tavolozza dei gialli in un bianco astrattivo perfettamente funzionale al gioco teatrale delle geometrie degli ambienti e al loro facile simbolismo (e in questo recupera il realismo atmosferico di John Sloan, Andrew Wyeth e Edward Hopper). Dall’altra, affonda letteralmente i suoi personaggi nelle ombre degli interni. In questi luoghi, i volti sono oscurati e censurati, gli sguardi sono esclusi e costretti a spiare per vedere oltre la cortina di nebbia dell’omertà, mentre i corpi ne sono fisicamente esclusi e vi possono penetrare solamente attraverso la negazione (morendovi) oppure la dissimulazione (nascondendovisi) della propria fisicità. Gli spazi sono letteralmente "vampirizzati": la luce non deve penetrarvi, pena la morte. La visione del mondo che ne emerge è quella di un mondo di uomini-vampiro assetati di potere e privi di umanità (costretti a versare il sangue di altre vite per eternare la propria, e la collezione di istantanee di cadaveri del killer ne è la rappresentazione più evidente), dove le armi da fuoco sono la versione aggiornata dei canini da roditore del Nosferatu (Maguire è caratterizzato con i tratti del roditore: mani, unghie e denti; mentre a uccidere non sono le pallottole ma i lampi della mitragliatrice), e dove lo scontro finale tra il rappresentante del bene e quello del male è allestito con i simboli del confronto tra la fede e i suoi oppositori (la statuina della madonna si contrappone all’ombra del killer, mentre l’immagine del Cristo dipinto carica il sacrificio di Sullivan di connotati rituali). In questo senso la luce abbacinante che inonda la casa e domina la scena finale è il corrispettivo del rogo purificatore, entro cui il male si coagula e discioglie, e si riforgia il bene. All’interno di questa messa in scena Mendes colloca la sua personale iconografia del gangster movie. Troppo stilizzata per essere realistica (il film è tratto dalla graphic novel di Max Allan Collins e Richard Piers Rayner, e i fumetti rimangono il referente più citato e privilegiato), giocando più spesso sul registro della sottrazione, in termini di dialoghi e di recitazione (Tom Hanks parla pochissimo e indossa una maschera di improbabile impassibilità), e su quello della rimozione (alla rappresentazione della violenza preferisce un’illustrazione che sceglie di privilegiare il fuori campo, in alternativa alla sua idealizzazione). D’altra parte, il nucleo tematico del film non può essere né l’etica maledetta e violenta del noir (mentre sfondo e personaggi appartengono a quella che viene definita the last mythic american landscape, ovvero all’era della depressione, motivi e simboli sono troppo classici, mentre la vastità di alcuni paesaggi e la caratterizzazione dei protagonisti ricordano più il western), né il rapporto tra padre e figlio (troppo schematico e poco approfondito: e in questo il cinema hollywoodiano confessa una delle sue più attuali lacune). Rimane la parabola di un uomo che, accecato dall’avidità del potere, vende la propria anima al diavolo (la mafia) credendo di evitare le ombre di una vita grigia imbracciando lui stesso le armi da fuoco e poi se ne pente. Ma possedere il fuoco è possedere il potere di uccidere come insegna “La guerre du feu” di Annaud, e come aveva già intuito Kubrick in “2001: Odissea nello spazio” quando al simbolo dell’illuminazione creativa aveva sostituito la scoperta del fuoco con la scoperta della tecnica (e tecnologia) delle armi. Welch getöse bringt das licht. Quale tumulto reca la luce! d’altra parte proprio questo era stato il grido di Ariel nel Faust di Goethe: e proprio il Faust era (ed è) il padre di tutte le strade verso la perdizione e verso il viaggio per la riconquista della luce (vampiri, primitivi, astronauti, gangster che siano i protagonisti).