Drammatico, Recensione, Sala

EMPIRE OF LIGHT

Titolo OriginaleEmpire of Light
NazioneU.K., U.S.A.
Anno Produzione2022
Durata119'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Hilary Small lavora al cinema Empire a Margate, nel Kent, ma deve affrontare quotidianamente la depressione di cui soffre. All’interno della sala è stato assunto da poco Stephen, che vorrebbe fuggire dalla città dove vive e dal razzismo di cui è vittima. Tra i due si stabilisce un forte legame.

RECENSIONI

Sam Mendes dirige un film molto personale in cui cerca di trasmettere il suo amore per il cinema, inteso anche come luogo della memoria in cui cercare consolazione dalle insidie del quotidiano. La scritta “trova la luce nell’oscurità” ci avvisa a inizio film; “è materiale prezioso”, dice il proiezionista riferendosi alle bobine dei film. Per immergerci nella nostalgia del suo sentire il regista, anche sceneggiatore, ambienta la vicenda sulla costa settentrionale del Kent, in Inghilterra, nel 1981, dove una multisala cinematografica davanti alla spiaggia svolge la sua funzione di intrattenimento per la comunità locale. Non è però la storia della sala l’elemento centrale del racconto, è infatti su chi ci gravita intorno che si sofferma lo sguardo del regista, in particolare l’insoddisfatta e solitaria Hilary che lavora come direttrice di sala. La donna, in cura per una depressione con il litio, riscopre un po’ di brio con l’arrivo di un nuovo dipendente, il giovane afrodiscendente Stephen. La loro relazione diventa il perno intorno a cui tutto ruota, sbilanciando la sceneggiatura che finisce per impelagarsi in un sacco di questioni importanti ma depistanti: la malattia mentale, il razzismo, la recessione, il thatcherismo che aleggia, le tensioni sociali, gli skinhead, i traumi del passato, le asimmetrie affettive. Aspetti che finiscono per richiedere più spazio di quello che lo spessore dei personaggi, e delle dinamiche a cui danno vita, sono in grado di sostenere. Si crea infatti un black-out tra i dialoghi disseminati qui e là che celebrano il cinema e la sua magia e la progressione del racconto che quella magia non riesce mai a trovarla.

Le tante possibili suggestioni evocate dalla sala e da chi la frequenta diventano un corollario, si insinuano piacevolmente nel fluire del racconto, ma è il racconto che scricchiola sotto il peso di una scansione prevedibile e di personaggi poco interessanti, figurine bidimensionali tratteggiate con superficialità (pensiamo alla giovane fidanzata di Stephen che appare, scompare e ricompare alla bisogna). Si giunge quindi alle scene madri con un pathos depotenziato dall’andamento inerte. Paradossalmente, poi, quella che sembra(va) una sentita dichiarazione d’amore per il cinema finisce per non fargli un gran servizio. La sala cinematografica, per come è mostrata, non racchiude infatti alcuna gioia ed è per lo più un rifugio per persone problematiche; anche la scoperta dei film come tonico per lo spirito da parte della protagonista, attraverso la visione di Oltre il giardino, ha un che di mortifero, è un evento strettamente solitario e intimo, senza quella dimensione collettiva in grado di renderne determinante, e migliore, la fruizione in sala. Più che amore per la sala cinematografica, l’opera trasmette amore per i film, ed è una cosa diversa che stride con le premesse. Per fortuna, però, c’è la luce di Roger Deakins che trova il bello oltre la retorica delle parole e delle deboli svolte narrative. Olivia Colman si impossessa del personaggio e lo trasforma in “Olivia Colman che interpreta un personaggio disturbato”, il rischio maniera è quindi solo in parte circoscritto.