TRAMA
2157. Nel solito futuro alla Wall-E, pochi ricchi vivono in una stazione spaziale orbitante extralusso chiamata Elysium (anagramma facile e risaputo, cfr. Pandorum, Christian Alvart, 2009) mentre i poveri sopravvivono sulla terra in condizioni disumane.
RECENSIONI
La fantascienza metaforico/grottesca di District 9 funzionava finché rimaneva intrisa di humour (nero) e la parabola moralistica veniva sublimata in un contesto quasi parodico. Assai meno riuscite erano le parti più dirette e lineari, col messaggio a farla da padrone e gli eccessi sentimentali(stici) che affioravano in tutta la loro chiarezza. Elysium, purtroppo, abiura quasi del tutto la componente ironica e si prende apparentemente sul serio. E sono guai. Iperboli talmente dirette da sfuggire alla definizione stessa di iperbole, parallelismi facili facili e pistolotti poco digeribili a tema anticapitalistico e terzomondista. Con una sceneggiatura elementare nella sua architettura di senso e psicologie dei personaggi composte da pochi poligoni texturemappati male. Si salva, c'è da dire, lo specifico filmico e qualche sua ancella. Perché la sceneggiatura, al netto delle citate e deprecabili componenti edificanti, ha una scansione dei tempi e un ritmo non disprezzabili, e la regia di Blomkamp riesce a (ri)posizionarsi da qualche parte tra il B-Movie (in senso buono) e una certa grandeur epica che funzionava già in District 9 (là erano gli scorci sulla gigantesca astronave che incombeva sulla baraccopoli, qui le digressioni paesaggistiche su Elysium).
Anche se, di nuovo, il regista sudafricano sembra disperdere le proprie energie e non valorizzare i suoi punti di forza (l'affresco di Elysium rimane abbozzato e l'enorme stazione orbitante rimane un non luogo topologicamente - e socio/civicamente -misterioso), adotta alcune scelte di messinscena poco comprensibili (le sezioni in stile mockumentary, con la camera a mano tremolante) e procede spesso 'a tentoni', improvvisando scelte narrative che si accavallano l'una sull'altra in un turbinio di nonsense: penso, ad esempio, a tutta la parabola di Max Da Costa, presto ridotto in fin di vita per l'esposizione alle radiazioni. Come giustificare la sua resurrezione in veste di eroe action? Con l'assunzione di un farmaco che lo 'stabilizza' fino al sopraggiungere del decesso (improvviso?). E con un esoscheletro che ne potenzia le funzioni atletiche. Salvo poi dover arrivare alla resa dei conti col cattivo che, per rendere la tenzone meno impari e più interessante, indosserà a sua volta, in fretta e furia, un esoscheletro spuntato fuori da chissà dove. Un'arbitrarietà drammaturgica che permea Elysium per tutta la sua durata. Gli attori si arrabattano tra le maglie di uno script approssimativo quanto manicheo fino al parossismo, ma particolare nota di demerito va a Jodie Foster che forse si sforza di dare/fare qualcosa 'in più' ma finisce per girovagare rigida e stizzita per tutto il film, col musetto incazzato e costretta in un tailleur nel quale si mostra assai sgraziata.

Adottato da Hollywood dopo District 9, il sudafricano Neil Blomkamp propone un altro film di fantascienza a tinte politiche traslate: dopo il razzismo dell’Apartheid, ecco la chiusura delle frontiere all’immigrazione dal Messico. Ha a disposizione un budget maggiore (120 vs. 30 milioni di dollari) e vari divi, nella fattispecie Matt Damon in versione macho (muscoli e testa rasata) e Jodie Foster, algida e spietata al punto giusto. Se le traiettorie del racconto e il design sono più originali, del predecessore si perdono due ingredienti fondamentali: la matrice demenziale che, nel bene e nel male, lo connotava rendendolo meno anonimo, e la sospensione d’incredulità in un racconto che, qui, incespica in azioni inverosimili (l’attore feticcio Sharlto Copley che porta su Elysium Frey e figlia: per un capriccio secondo la sceneggiatura, per comodità di evoluzione del racconto in realtà; Copley, che elimina, in un raptus, quella che si credeva essere la nemesi del film e che meritava sviluppo migliore; Spider & co. che atterrano senza opposizioni). Il pathos c’è, l’allegoria che parla del presente funziona e, senza commedia, il dramma acquista peso maggiore; piace sempre il marchio di fabbrica di Blomkamp che inietta effetti speciali e macchine futuribili in contesti di degrado, mimetizzandoli per maggiore effetto realistico (senza il vezzo di riprese da pseudo-reportage di District 9): è un peccato, quindi, che la carente tenuta narrativa denudi anche la massiccia presenza di scene d’azione tanto spettacolari quanto standard, a discapito del materiale umano ed edificante.
