TRAMA
Vita e carriera di Elvis Presley attraverso il racconto del suo manager, il colonnello Tom Parker.
RECENSIONI
La butto un po’ sul personale, ma aiuta il discorso. Nonostante non avessi ancora dieci anni (li avrei compiuti un paio di settimane dopo) ricordo perfettamente quel 16 agosto 1977: mi trovavo in auto, appena varcato l’ingresso del lido balneare dove avrei trascorso la giornata, mio padre stava per parcheggiare quando dall’autoradio giunse l’annuncio della morte di Elvis Presley. La cosa mi colpì perché poco tempo prima, in televisione, avevo visto delle immagini che mi avevano turbato: un Elvis in sovrappeso, di un gonfiore innaturale quasi quanto la sua immobilità sul palco, cantava continuando a detergersi il sudore copioso con asciugamani di un candore accecante, poi riposti sul collo come una stola. La cosa che trovavo sconvolgente era l’evidente sofferenza di quest’uomo, ingabbiato nel pesante costume di scena - anch’esso bianco - riverberante sullo schermo per l’effetto fluo della trasmissione: esausto, Presley aveva qualcosa di cristologico, lo show come una via crucis, la performance come una condanna (a morte). Ovviamente il novenne che ero non elaborò un pensiero preciso su quelle riprese televisive, ma l’effetto che suscitarono in lui fu enorme: era un evidente calvario offerto agli occhi del mondo. Chi o cosa costringeva la star più luminosa della musica americana al martirio? E il pubblico che era lì ad applaudire non si rendeva conto di nulla? È questo il complesso di impressioni e di immagini (lo chiamerò trauma, va) che mi si è puntualmente riproposto ogni qualvolta ho incrociato la figura di Elvis nella mia vita: fotografie, canzoni, film mi riportavano sempre al disagio provato in quella occasione. E che ho riscoperto identico in questo Elvis, quando nel finale si propone il filmato di repertorio di una delle ultime esibizioni della star (una Unchained Melody miracolosa, una specie di parentesi divina che si apre, perfetta, tra il balbettio, il passo incerto, la sofferenza).
Per dire che mi pare già interessante a priori la prospettiva scelta da Luhrmann per raccontare il personaggio: la cavalcata quasi onirica del suo manager pigmalione Tom Parker che, sul letto di morte, evocando l’incontro con la futura stella, racconta come ne abbia di fatto controllato ogni frangente della carriera. Parker decide tutto, amministra tutto, asseconda Elvis quando serve, si incavola quando Elvis fa di testa sua (lo show di Natale che non rispetta la tradizione), lo rimette in riga a suon di promesse, ne tarpa le ali quando decide di monumentalizzarlo con il residency show - imprigionando The Pelvis a Las Vegas - e passare all’incasso. Nel frattempo si inventa un concerto via satellite che, evitando quel tour mondiale che non era da farsi (nessuno sapeva che Parker fosse un immigrato senza passaporto), diventa da un lato un unicum storico, dall’altro un evento-modello avveniristico. Figura faustiana quella tratteggiata da Tom Hanks: creatore geniale di Elvis, Parker ne è anche il suo disgustoso distruttore, colui che, intuendone da subito il potenziale, mise prima l’artista nelle condizioni di germogliare, poi di appassire. Il sottotesto continuo del film sembra essere: se il mondo ha avuto Elvis lo si deve a lui, a questa sanguisuga a suo modo paterna. A dire che non c’è una storia alternativa di una star chiamata Elvis Presley: l'unica è quella in cui il protagonista alla fine paga con la vita il suo successo. O così o niente Elvis del tutto («Siamo uguali, io e te»). Senza strega cattiva non ci sarebbe Biancaneve.
Luhrmann, insomma, racconta Elvis attraverso il metodico, inflessibile, spietato processo manipolatorio di Parker, il tycoon che porta un ingenuo e talentuoso ragazzo del Sud a diventare un mito. Una specie di arringa immaginaria in cui il Colonnello, nel tentativo di assolversi, pone in piena luce le sue colpe. Ma anche i suoi meriti. Meriti che non sono umani, e forse nemmeno artistici, attenendo di fatto allo show business, il tritacarne che massacrò Elvis. Lo stesso tritacarne che, però, ne ha fatto una stella intramontabile.
È un’intuizione straordinaria, perché quell’argomentare, rammentare, commentare, travisare ad arte i fatti diventa la base del viaggio per immagini - l’unico possibile per il regista australiano - attraverso la vita di Elvis: i voli pindarici di Parker sono quelli di Luhrmann che, tenendo dritta la barra cronologica, si permette digressioni, aperture di parentesi, salti temporali risucchiati in vertigine, con quella vividezza e quell’inventiva visiva che gli conosciamo. In questo senso la serie Netflix The Get Down (forse il capolavoro del regista) è il riferimento primo poiché già in essa si parlava del rapporto tra arte e business e del prezzo da pagare per il successo; già lì si mescolavano repertorio e ricostruzione. Elvis, allo stesso modo, è un resoconto tutto per immagini, di grande leggerezza, ma nessuna superficialità, con un lavoro di montaggio (Matt Villa, Jonathan Redmond) che quest’anno nel cinema U.S.A. non credo abbia eguali (Academy avvertita) e che fa andare il film a cento all’ora. Si prenda l’epifania black del musicista bambino (quasi una possessione) raccontata come una favola allucinata (e subito il pensiero a Ballroom). O l’efficacia con la quale Luhrmann restituisce l’energia erotica del personaggio, soprattutto nella temperie (sullo sfondo della vicenda biografica ci sono gli sconvolgimenti culturali dell’epoca, la fine dell'innocenza dell’America): Elvis per Luhrmann è naturalmente The Pelvis, non solo una star della musica, ma un corpo che esprimeva una tensione sessuale che si riversava nei salotti americani (l’adolescente, senza filtri, la percepiva tutta e ne godeva; l’adulto, strutturato, ne era spaventato): «l'unico artista di sesso maschile che in vita mia mi abbia causato una reazione di tipo sessuale: non si trattava di vera eccitazione, piuttosto di un’erezione del cuore, quando lo guardavo impazzivo di desiderio e invidia e venerazione e autoproiezione» scriveva Lester Bangs. Ecco, Baz Luhrmann riesce a restituire proprio questa cosa qui, il suo cinema (camp in senso amplissimo) sa fare i conti con quell’erotismo trans-sessuale (e con quel linguaggio musicale trans-razziale e quel proporsi trans-classista - le origini umili sempre rivendicate -), con quel dimenarsi ribelle, pre-punk.
Luhrmann, insomma, al di là del discorso immaginifico, ci fa comprendere davvero la portata del personaggio e lo fa evitando le pastoie del biopic tradizionale, agendo a un livello profondo, sensoriale.
Due esempi per tutti.
Primo: qualunque altro regista, nel momento in cui Elvis si trasferisce a Graceland lo avrebbe segnalato in qualche modo (una cosa del tipo: «Ehi, questa non è semplicemente la sontuosa residenza che il King erige per sé - e la madre -, questa è Graceland: diventerà il santuario del rock, La Mecca americana! Pay attention!»). Ma a Luhrmann non interessa sottolineare qualcosa che qualsiasi americano (e tanto mondo) sa benissimo [1].
Secondo: il repertorio musicale è dato tutto per scontato, mai celebrato; la creazione musicale è implicita, quello che è esplicito è il modo in cui è messa in scena, come viene offerta al pubblico: i dischi, la televisione, il palco (il business, insomma, merchandising compreso). Presley che canta, non ciò che canta. Non è poco, basta il confronto con i più recenti biopic “musicali” - Mercury, Elton, Aretha - tutti succubi dell’[in]evitabile Best Of. [2]
L’ho già scritto su Film Tv, ma lo ripeto volentieri qui: una sola cosa manca a Elvis del tipico film biografico, la noia. Cosa che era riuscita, per esempio, all’Oliver Stone di The Doors che (per me, eh) è ancora il suo film migliore. E qualcosa di stoniano (in primis la disinvoltura nel mischiare i linguaggi - ci ricordiamo di Natural Born Killers? -) l’ho ravvisato anche in questo Elvis (due volte ho visto il film - a Cannes e tre mesi dopo, per la recensione che state leggendo - e due volte ravviso nei miei appunti le parole Oliver e Stone, quindi devo per forza scriverla ‘sta cosa).
Cruciali, come per tanto Stone storico-biografico, sono le scelte attoriali: un Tom Hanks che non ti aspetti (di perfetta ripugnanza, non solo per la protesi) e un Austin Butler davvero clamoroso, non imitativo, non semplicemente mimetico. È Elvis (per tutto quello che fa), senza maquillage perversi, senza somigliargli davvero: ce lo fa credere, come accadrebbe a teatro (Academy, già sai). Perché era facile perdersi nella caricatura, tanto più che quella di Elvis è diventata un’immagine archetipale, oggetto di riproduzioni più o meno consapevoli (e cloni, imitatori - pensiamo a Little Tony e Bobby Solo in Italia o Johnny Hallyday in Francia -, ammiratori e cripto-emulatori - toc toc, ci sei Morrissey? -). Dunque, Baz affidandosi al semioscuro Butler rischiava tanto. E ottiene il jackpot. Viva Las Vegas.
[1] In Graceland di Paul Simon - brano che dà il titolo al suo album capolavoro del 1986 - si descrive il viaggio alla “Terra della Grazia” (eh) come un pellegrinaggio, qualcosa di religioso, di iniziatico, di inevitabile, cosa da fare almeno una volta nella vita:
I'm going to Graceland, Graceland
Memphis, Tennessee
I'm going to Graceland
Poor boys and pilgrims with families
And we are going to Graceland
My traveling companion is nine years old
He is the child of my first marriage
But I've reason to believe
We both will be received
In Graceland
(…)
For reasons I cannot explain
There's some part of me wants to see Graceland
[2] Si potrebbe aprire un capitolo a parte sul modo geniale in cui Luhrmann gestisce lo score, in questo come negli altri suoi film. Basti qui ricordare che nei titoli di coda suonano le note di The King and I, in cui Eminem - grande artista bianco che si è mosso, e imposto, nell'ambito di una musica eminentemente nera come il rap - duetta con CeeLo Green. Non aggiungo altro.