TRAMA
Un borgo della provincia americana, una giornata come tante: una strage in un liceo.
RECENSIONI
Gus Van Sant affronta il sempreverde tema della violenza giovanile (con particolare riferimento allambito scolastico, agglomerato di frustrazioni eterogenee e crogiolo di opposti ri/sentimenti) attraverso un mosaico di microstorie alla SHORT CUTS con un tocco di PULP FICTION (la decostruita scansione spazio-temporale). Niente da dire sotto il profilo audiovisivo: immagini convenientemente spettrali, movimenti di mdp di sinuoso virtuosismo, sagacia plastica a carrellate, oniriche frantumazioni sonore. Ma appunto, niente da dire: tutto questo era già presente (a un livello ben più audace nel suo pressoché assoluto astrattismo) in GERRY (girato durante la preproduzione di ELEPHANT, visto a Locarno nel 2002 e vergognosamente inedito in Italia).
In una confezione squisita quanto (rispetto a GERRY) addomesticata (pedanti giochi di focus, pedinamenti meccanicamente moltiplicati, ralenti superflui, Beethoven unito allultraviolenza fino al giorno del giudizio e oltre) ELEPHANT nasconde (per poco, purtroppo) unanima di stucchevole banalità, un deserto di matrice televisiva. Non è il carattere qualunque dei personaggi e delle loro vicende a urtare, ma la formuletta di spicciola sociologia giovanilistica che il regista ne ricava: cattivo esempio mediatico [il documentario su Hitler in televisione (tanto per inventare qualcosa
)] + senso dimpotenza psicofisica + adulti ostili e distratti = massacro. Lo slavato canovaccio allestito dallo stesso Van Sant ripropone tutti gli stilemi del caso: genitori assenti e/o ubriachi, ragazzine serenamente anoressiche, fotografi insaziabili, brutti anatroccoli che subiscono in silenzio o si a(r)mano per una vendetta insanguinata e cool come un videogame. Il quadretto è completato da simboli noiosamente espliciti (limmagine su cui scorrono i titoli di testa, trasparente forca su un palco di nuvole in moto perpetuo), narcisistici sbandamenti letterari (la citazione da Macbeth), imbarazzante latitanza di (auto)ironia (fa eccezione, in parte, lantieroico prefinale).
Perennemente indeciso fra la cronaca bruta(le) e la trasfigurazione poetica, Van Sant tenta di presentarsi come un Solondz di trasognato fulgore ma non arriva nemmeno al Clark di KEN PARK (altrettanto asettico ma un po più variegato), perdendo di vista, nel patinato sentiero, la grazia tagliente e la passione ricca di umori(smo) del Gus che amiamo.

In una scuola che sembra il centro commerciale degli zombie romeriani, in cui gli studenti vagano da un punto all'altro percorrendo lunghi e freddissimi corridoi, si vive una giornata che, apparentemente, è come tutte le altre; quello adolescenziale appare un pianeta chiuso ermeticamente sul cui enigma Van Sant carrella implacabile: la mdp segue (alla lettera) i personaggi (tutti accompagnati da una didascalia che ci riferisce i loro nomi), li tallona (un porsi alle spalle dei ragazzi che avrà il suo richiamo nel macabro videogame giocato da uno dei futuri sterminatori), ne capta le parole, i discorsi di volata degli altri studenti che vengono incrociati.
Van Sant è sicuramente rigoroso, volendo enunciare e non denunciare, e mantiene ambiziosamente la sua scelta dall'inizio alla fine, concentrando al massimo luoghi e tempi e strutturando il film per piani sequenza ma, desensibilizzando all'eccesso il narrato, finisce col fornire la cronaca algida e straniata sì, ma anche prevedibile, di una tragedia: infatti per quanto lodevole sia il suo approccio, minimalista e volutamente antispettacolare, l'autore doppia lo stereotipo più di una volta senza che la severità del registro valga a riscattare tali inciampi. Ecco che le cose più convincenti sono allora certi momenti a macchina ferma in cui il regista gioca intelligentemente con piani, ralenti e (s)focalizzazioni (la scena iniziale dei giovani sul prato) e altri più intensi che restituiscono atmosfere e sottendono stati d'animo (il circolare ossessivo della cinepresa nella stanza di Alex ed Eric mentre il primo fa risuonare le note di Per Elisa).
Non mi sembra affatto che, come scritto da più parti, il regista si limiti a registrare i fatti e a non azzardare spiegazioni poiché fin dall'inizio le modalità di messinscena di questo mondo denunciano e impercettibilmente evidenziano indizi inquietanti e chiarificatori: disgregazione familiare, genitori alcolizzati, indifferenza del mondo adulto, istituzioni scolastiche glaciali e non partecipi, ragazzi abbandonati a sé stessi, non risultano solo da semplici fotografie ma si risolvono in elementi esplicativi, meno urlati della media ma accostati e coesi in modo da rendersi inequivocabilmente induttivi (salvo una evidente caduta di stile sulle immagini televisive del documentario dedicato al nazismo, faciloneria che stona con il registro sussurrato conferito al resto della pellicola). La scelta simultaneista poi - il moltiplicare le prospettive e il rivivere gli stessi momenti della giornata attraverso lo sguardo dei vari personaggi - è tutt'altro che nuova (da ultimo LE REGOLE DELL'ATTRAZIONE di Avary, che usa lo stesso procedimento prendendosi, tra l'altro, tutt'altri rischi). Certo l'opera dimostra una capacità penetrativa e indagatoria che ha tutt'altro mordente e incisività rispetto a quella di un qualsiasi Larry Clark, scevra com'è - la pellicola - da plateali compiacimenti, ma ELEPHANT, acclamata palma d'oro a Cannes 2003, più che un grande film mi pare piuttosto una sapiente operazione stilistica, di alta fattura, certo, ma di sterile quanto facile e autorialmente rassicurante geometria.
Prodotto dal canale HBO, principalmente interpretato da attori non professionisti (fa eccezione il ritorno di Timothy Bottoms), ispirato ai documentari del grande Frederick Wiseman, ELEPHANT deve il suo titolo ad una omonimo telefilm di Alan Clarke del 1989 sui conflitti tra cattolici e protestanti in Irlanda e a una parabola buddista in cui un cieco cerca di risalire alla fattezze di un elefante toccandolo: tutto quello che riesce a cogliere è la consistenza della singola parte non riuscendo mai ad ottenere un quadro tattile, e dunque immaginativo, dell'insieme; allo stesso modo di questo elefante chiamato Gioventù non possiamo carpire che semplici frammenti mentre ce n'è sempre impedita la comprensione totale.

Gus Van Sant continua la sua strada di sperimentazione del mezzo cinematografico e affronta la tristemente nota strage alla Columbine School in Colorado del 1999 mostrando, con freddezza da chirurgo, i fatti nella loro essenzialità: un giorno qualsiasi, una scuola brulicante di studenti (sempre in giro e mai in classe), chiacchiere di routine, tanti visi sovrapponibili, ognuno con una storia differente da raccontare o forse sempre la stessa storia in abiti diversi. La oliata quotidianità viene squarciata da due giovani che, dietro l'aria qualunque, serbano un rancore profondo verso i compagni di scuola dalla presa in giro facile e i professori che non sono stati capaci di ascoltarli. Il lungometraggio segue il destino beffardo di alcuni abitanti della cittadella scolastica (parlare di liceo sarebbe riduttivo) nell'arco della mattinata fatidica, si incolla alle loro schiene e li pedina con insistenza, sfocando i contorni di un "fuori" difficile da comprendere e motivare, fino al massacro finale. Il film è tutto qui, ma dietro la semplicità di copertina c'è un percorso registico molto sofisticato: un formato inconsueto (1:33 al posto del canonico 1:85), lunghi e complicati piani sequenza, molteplici punti di vista che ripropongono (senza aggiungere molto, peraltro) l'attimo che separa la quiete apparente dell'ordinario dall'orrore dello straordinario. L'idea di esplicitare i fatti partendo dall'interno dell'azione è forte ed efficace, ma non appena il film esce dalla cronaca per soffermarsi su quello che i giornali hanno potuto soltanto ipotizzare, la banalità del male inciampa nella banalità dello sguardo. Ciò che viene mostrato dei futuri assassini pare infatti materia per un becero talk show da "prime time" televisivo: in una sola mattina i due restano affascinati da un documentario sul nazismo, si dedicano a violentissimi videogiochi, si lanciano in un approccio omosessuale, mentre la famiglia è, ovviamente, uno sfondo indistinto, distratto o assente. Il tutto inframmezzato da dialoghi pronunciati con l'apatia di un "mi passi il the cara!". E la forzatura continua nella messa in scena del massacro. La violenza resta quasi sempre fuori campo, ma il gelo e l'indifferenza degli assassini, come anche degli altri ragazzi (lenti, flemmatici e per nulla terrorizzati) suona semplicemente falso. L'agghiacciante vacuità di una generazione priva di punti di riferimento e àncore affettive, si traduce così, attraverso un taglio asciutto e minimale, in un bell'esercizio di stile dal poco valore aggiunto. Il turbamento che ne deriva è, anch'esso, solo di superficie e non scalfisce. Pronto, una volta fuori dalla sala cinematografica, ad essere spazzato via da un vento autunnale in grado di scompaginare immagini e pensieri. Il centrifugato di nitrato che ne rimane è solo un lieve piacere, tutto di testa.

Prima che di Wiseman o di Michael Moore parlerei di Jacques Tourneur. Lasciamo perdere l’annoso problema della distinzione tra documentario e fiction, del confine che li separa o della caduta del confine che ha smesso di separarli (ammesso che ce ne sia mai stato uno). Van Sant prende una porzione di spazio circoscritta, un segmento di tempo limitato e ne rimette in scena gli avvenimenti che sono stati presenti al loro interno. E’ un’operazione di storiografia minima, di riscrittura degli eventi visti attraverso una lente scura. Elephant è un film di zombie perché buona parte dei suoi protagonisti sono già morti, non sanno di esserlo, ma lo sa chi li filma. Si è spesso detta una cosa di questo film: che Van Sant registra degli avvenimenti senza giudicare, senza cercarne i moventi, senza addentrarsi in considerazioni sociologiche. E’ in parte vero, ma solo perché questo era l’obiettivo del film di Michael Moore, mentre Elephant va in una direzione diversa. E’ un progetto che si prefigge lo scopo di filmare il giorno in cui alcune persone moriranno, è il giorno in cui la vita fa i bagagli e lascia il posto a qualcos’altro. I luoghi su cui camminano i protagonisti sono un terreno insanguinato, su cui si è già posata la morte. Il liceo di Columbine è già vuoto all’inizio del film, per tutta la durata di Elephant si avverte una mancanza di vita. Rallentare lo scorrere del tempo (i ralenty), rifilmare lo stesso lasso di tempo più volte da posizioni diverse è un modo per cercare di fissare delle linee (i percorsi di alcune vite e i loro incroci) prima che si interrompano. E’ il tentativo di fissare in pellicola una cosa (la vita) che sta irrimediabilmente sbiadendo. Come la sequenza del ragazzo nero che va incontro alla morte, in silenzio e senza alcuna ragione per non uscire dalla scuola, già privo di istinto di sopravvivenza. La morte o la sopravvivenza sono frutto della fortuna e del caso, ma ad ogni personaggio è già stato attribuito il proprio destino a inizio film e deduciamo dalla penultima inquadratura (lasciata in sospeso) che la differenza tra le due opzioni non è di grande di rilevanza. Una sequenza esemplare dell’idea che sta alla base del film è quella della riunione per le minoranze sessuali: abbiamo una sequela di persone disposte a cerchio, la macchina da presa al centro che filma ad uno ad uno i loro volti. E’ un inventario di facce di persone che si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. A turno parlano, a volte la macchina da presa li riprende mentre sono in silenzio e ci chiediamo da dove provenga la voce, ci aspettiamo che la macchina vada a inquadrare la faccia di chi sta parlando. Ma la telecamera riprende gli studenti in senso orario, uno per volta, meccanicamente, disinteressandosi del discorso. Succederà lo stesso con le pallottole, più tardi. Venire filmati o venire colpiti è semplicemente una questione di traiettorie.

Elephant è un film sicuramente diseguale e per certi versi schizofrenico, ma ha dalla sua almeno un grande merito: il (malriuscito) tentativo di associare a un fatto di cronaca tristemente ripetutosi più volte negli USA di fine anni ’90 - e generalmente (sovrac)caricato di significati, simboli ed emblemi - sostantivi come noia, lentezza e prevedibilità. Se infatti l’arcinota vicenda di Columbine, punta dell’Iceberg, ha scatenato una tempesta di spericolate interpretazioni socio-politico-psicologiche, ed ha ispirato il didascalico e per certi versi disonesto (pseudo)documentario di Moore, il film di Van Sant è (“stava per essere”) un estenuante tour de force nel quotidiano, che rifugge sistematicamente ogni spettacolarizzazione voyeuristica e fa del tempo che scorre il suo vero protagonista. Chiare, in tal senso, le scelte tecnico-stilistiche del piano sequenza baziniano (la massima aderenza alla realtà nel suo farsi, senza manipolazioni) e del pedinamento zavattiniano, con la mdp al seguito dell’uomo (adolescente) qualunque. Meno chiare alcune nette e isolabili stecche, come la sequenza del videogioco (banale pre-visione intrisa di psicosociologia da quattro soldi), quella del documentario nazista (durante la quale si torna dalle parti del “si apre il dibattito”) e il solito apologo sulla facilità con cui, in America, ci si possa procurare un arsenale (che però, a pensarci bene, ha forse il solo difetto di essere superfluo). Tutto il resto, in Elephant, funziona a dovere, riuscendo a restituire la quotidiana banalità (del bene e) del male e a sospendere qualunque tipo di giudizio per esporre i “fatti” in tutta la loro insondabile complessità, ma i succitati difetti, a cui bisogna forse aggiungere qualche spaccato familiare in odor di schematismo e l’episodio delle “ragazze vomitevoli”, rischiano seriamente di far naufragare il film di Van Sant in un oceano di buone intenzioni.

Ancora Colombine, sempre Colombine. Nella nostra mente, nei nostri occhi, nell’implacabilità del ricordo. Si capisce da subito che Van Sant, non particolarmente brillante da dieci anni a questa parte, anzi a dire il vero piuttosto deludente, un po’ troppi per un cineasta di indubbio talento, non è interessato tanto alla ricostruzione istruttoria di uno degli episodi più dolorosi della vicenda umana sul suolo terrestre quanto alla sua costruzione filmica. Elephant appare come uno dei film più sintatticamente robusti nell’ambito della sua pur eterogenea filmografia. In un tempo (una giornata) e in uno spazio (l’edificio scolastico, le aule, i giardini, le strade limitrofe) limitati Van Sant riesce a descrivere le persone che sono state involontarie protagoniste della tragedia attraverso la quotidianità, l’abitudinarietà dei loro gesti, del loro agire, dei loro movimenti e del loro parlare di nulla, sul nulla..Una quotidianità fin troppo “normale” per essere vera, una normalità invero agghiacciante, che fa paura o meglio che crea angoscia, disagio e inadeguatezza solo a vedersi. Ma è proprio sull’angoscia che lavora il registro stilistico del film di Van sant; l’angoscia che l’insensatezza del quotidiano si perpetui giorno dopo giorno senza che ci sia uno scopo, un fine e, conseguentemente, una fine o che parimenti qualcosa di ancor più insensato debba ancora accadere. Il nulla dell’insensatezza di questo stillicidio dei ragazzi della Colombine (discorso che si potrebbe tranquillamente estendere a tutte le latitudini, poiché la follia dell’insensato non è una condizione geografica ma esistenziale) è come un elefante grigio nel bel mezzo di un eterno, infinito grigiore. Non si può discernere, ma è lì, sotto i nostri occhi. E il film è così profondamente immerso in tale poetica dell’insensato che sembra voler inseguire le traiettorie estetiche care a un grande maestro dell’inspiegabile: Michael Haneke. E tuttavia Van Sant conElephant riesce addirittura ad essere più incisivo e più efficace, e dunque più affascinante del gelido nitore del cineasta austriaco. Ciò che sembra profilarsi come ipotesi di un prolungato vezzo registico si presenta al contrario come eminente discorso di grammatica cinematografica. Si impone con una netta evidenza la volontà (e il desiderio) di Van Sant di accarezzare i corpi delle persone che popolano quello scenario di apparente normalità, quel piatto contesto di vita scolastica, attraverso lunghi, interminabili piani-sequenza, inseguimenti di m.d.p., stacchi improvvisi, rallentamenti tenerissimi e devastanti, e sfocamenti per dare risalto ad altre vite, altri sguardi, altre persone, come se il regista volesse in qualche modo accompagnarli per sempre, prolungandone l’esistenza indefinitamente. E in tale apparente normalità che è già presaga di una catastrofe a venire, come il cielo plumbeo di una tragica alba annunciata dall’incipit della pellicola, che si compie una metamorfosi di sguardi, un crescendo doloroso e insondabile come quello delle note della beethovenianaFur Elise. Un occhio, quello di Van Sant, che ora sì, si fa più gelido, più straordinariamente allucinato. Eric e Alex, ma potrebbe essere qualsiasi altro, varcando la soglia della scuola entrano nel territorio dell’assurdo da cui non si fa più ritorno, in cui la realtà si fa preoccupantemente videogame, e viceversa, maledettamente, insensatamente. Ciò che rimane è solo uno sguardo straniato e straniante, romeriano, primo fra tutti quello di Van Sant.
Il piombo del cielo annuncia forse una fine. Nella tragicità di tutto questo grigio sappiamo che c’è un elefante. Non lo vediamo, ma c’è.
