Commedia

EL ABRAZO PARTIDO

Titolo OriginaleEl Abrazo Partido
NazioneArgentina/Francia/Italia/Spagna
Anno Produzione2004
Genere
Durata100'
Fotografia
Montaggio
  • 43410

TRAMA

Ariel è un giovane ebreo argentino che vorrebbe approfittare della discendenza polacca della sua famiglia per diventare cittadino europeo. Nel frattempo aiuta la madre nel suo negozio di biancheria intima, situato in un centro commerciale nel quale convive una comunità multirazziale piuttosto affiatata. Il padre di Ariel, Elias, ha abbandonato la famiglia molti anni prima per trasferirsi in Israele a combattere durante la guerra dello Yom Kippur.

RECENSIONI

Il film di Daniel Burman, distribuito in cinquanta sale dall’Istituto Luce, indubbiamente non faticherà a trovare il suo pubblico, forte del doppio Orso d’Argento ricevuto al Festival di Berlino e di un discreto battage pubblicitario adeguatamente fornito da un certo numero di recensioni entusiastiche (prima fra tutte quella de Il messaggero, che campeggia su alcune locandine definendolo “tenero ed esilarante, commovente e sapiente, rifinito e traboccante di energia”).
In effetti possiede tutte le caratteristiche che sembrano mandare in visibilio giurie di festival e recensori di quotidiani: aderisce pedissequamente a una serie di stereotipi e paradigmi che immediatamente lo identificano in un filone di cinema d’autore tanto inconsistente da ritrovarsi ad essere vendibilissimo e facilmente incensabile. Dentro di solito ci si trovano “l’indimenticabile galleria di personaggi”, “l’analisi attenta delle nevrosi che affliggono il protagonista, magnificamente interpretato da…”, “il disagio e la crisi di una nazione riflessi nel senso di smarrimento che colpisce i suoi abitanti”, “lo stile esuberante del giovane cinema indipendente”, “l’atmosfera frizzante”, “una sceneggiatura sottilmente ironica, capace allo stesso tempo di divertire e commuovere”, “il racconto di formazione”, “l’agognato ricongiungimento con la figura paterna”. È come se l’arte del copywriting, la letteratura della quarta di copertina avesse finalmente trovato la sua fabbrica dei sogni, una macchina capace di fornire una tanto attesa serie di prodotti (di cui “L’abbraccio perduto” sembra essere la momentanea punta di diamante) adatti a un pubblico “esigente, raffinato, colto, intelligente, curioso”. Il cinema di Burman è frutto di un’equazione troppo semplice per non risultare irritante: alle nevrosi dei suoi protagonisti deve corrispondere una nevrosi stilistica capace di sotterrare lo spettatore con una sceneggiatura che si sforza di sopperire con la verbosità all’insignificanza, una macchina da presa in costante movimento, soprattutto quando si tratta di non andare da nessuna parte, e un montaggio talmente frenetico e incalzante che, forse nel tentativo di sottolineare qualcosa, finisce per tritare qualunque cosa sia contenuta dall’inquadratura. Questa vertiginosa eccedenza di suoni e immagini diventa l’impietosa cassa di risonanza per l’enorme vuoto che si nasconde (male) dietro questo cinema parassitario e stereotipico.
Immaginiamo che una certa parte della colpa sia imputabile all’ennesimo infame lavoro di doppiaggio, in grado di vanificare anche la buona volontà che Burman aveva dimostrato cercando lo stile finto-documentaristico che sembra essere la caratteristica peculiare della sua regia. Il suono piatto e blandamente postsincronizzato inserito in fase di doppiaggio (oltre a non tener conto di quelli che presumiamo fossero i diversi accenti dei personaggi) funziona da rullo schiacciasassi dell’immagine, sottraendole profondità e scorrendo sullo schermo come una cosa esterna al film, ridotto ormai a una parodia di quei deplorevoli documentari televisivi in cui ascoltiamo il doppiatore coprire la voce del personaggio cercando svogliatamente di imitarne l’intonazione.