Drammatico, MUBI, Recensione

EISENSTEIN IN MESSICO

Titolo OriginaleEisenstein in Guanajuato
NazioneOlanda, Messico, Finlandia, Belgio, Francia
Anno Produzione2015
Durata105'
Sceneggiatura
Montaggio

TRAMA

Nel 1930 il regista russo Sergej Eisenstein, reduce dalle disavventure hollywoodiane, si reca in Messico per girare Que Viva Mexico! e nei dieci giorni che trascorre a Guanajuato si innamora di un insegnante di religione comparata col quale perde la sua verginità il 25 ottobre 1931, giorno del quattordicesimo anniversario della rivoluzione russa. Eisenstein ha 33 anni, l’età della morte di Alessandro Magno e Gesù Cristo, l’età, secondo Sant’Agostino, che tutti noi avremo in paradiso («I had to come to Mexico to go to Heaven»).
In quei giorni, in cui il regista si scontra con i finanziatori del film messicano, Eisenstein cerca una dimensione convincente per la sua opera cinematografica e una nuova prospettiva per la sua identità sessuale.
Peter Greenaway suggerisce che non sia casuale che le esperienze a Guanajuato si svolgano in ottobre, mese che vede i messicani celebrare il Giorno dei Morti, mese che dà il titolo al più importante e costoso film di Eisenstein (Oktyabr’), anche noto col titolo del romanzo di John Read dal quale era tratto, I dieci giorni che sconvolsero il mondo: poiché le sue esperienze in Messico cambiarono così tanto la sua personalità e il suo cinema, i giorni trascorsi dal regista russo a Guanajuato potrebbero essere descritti come I dieci giorni che sconvolsero Eisenstein.

RECENSIONI

Premessa. La critica è mobile

Il pressbook di Eisenstein in Messico recita: «Accolto con entusiasmo all'ultimo Festival di Berlino, il film segna il ritorno di Greenaway all'energia coinvolgente delle sue opere migliori» recependo un ritornello che è rimbalzato un po' dappertutto, dai quotidiani alle riviste, dai flani ai commenti in rete: Greenaway è rinato, destatevi o pastori. La morte del maestro gallese era stata constatata in due step: l'unanime dissenso per 8 donne ½ (1999), considerato una stanca ricognizione di luoghi greenawayani visitati meglio in passato, e, soprattutto, il successivo Le valigie di Tulse Luper (2003/2004), film che costituisce (se si eccettua un'illuminata corrispondenza di Roberto Silvestri da Cannes per Il Manifesto, in occasione della presentazione in concorso del primo capitolo) un enorme rimosso critico: nessun tentativo di approcciarlo seriamente, di completarne la visione (fondamentale per comprenderne il costrutto), ma giudicato - senza farsi venire l'ombra di un dubbio e senza accennare un tentennamento - un colpo di testa solipsistico e incomprensibile, laddove trattavasi della naturale evoluzione del discorso portato avanti da Greenaway fin dai primi film e finalmente giunto, grazie alle nuove possibilità offerte dalla tecnologia, alla sua piena attuazione. Dopo quei due lavori la critica italiana, complice la latitante distribuzione, si è disinteressata a Greenaway considerandolo, di fatto, una pratica assolta e archiviata.
Già in 8 donne ½ - che, nel suo decostruire l'harem felliniano di 8 ½, era un film (dichiaratamente, si veda il finale) godardiano - si constatava l'esplorazione ironica di un universo artistico altrui ricondotta a sé, molto simile a quella praticata in questo Eisenstein. Ma c'è di più (e siamo al paradosso): se c'è un film di Greenaway che, rifacendosi palesemente a Tulse Luper, non può prescinderne,  è quest'ultimo. Tulse Luper  - in Moab, in Antwerp, in Dinard, in Sark, in Venice, in Rome (in Guanajuato?) - era suddiviso in episodi, ciascuno ambientato in una città, in cui il protagonista (collezionista, scrittore, regista) si confrontava con una realtà particolare che lo imprigionava (di fatto o metaforicamente) e con la quale doveva fare i conti (come in questo film per l'appunto). Ogni episodio aveva una cronologia e una spazialità molto concentrate (come questo film) oltre a personaggi e partner sessuali relativi (uomini o donne) legati a filo doppio alla località in cui si svolgevano gli avvenimenti (come questo), era parlatissimo (come questo), di palese impostazione teatrale (come questo) e, soprattutto, esattamente come Eisenstein in Messico, proponeva un peculiare trattamento dell'immagine che fu alla base di quel mal di pancia critico (la crisi di fronte all'impossibilità di appiccicare un'etichetta) che oggi, potenza del capriccio e della convenienza, si è trasformato in formule come 'tripudio visivo', 'gioia per gli occhi' et similia. C'è di che ghignare, no?

Si confronti, un esempio per tanti, il bellissimo incipit di quest'ultimo film (Eisenstein in auto con la sua troupe si avvicina a Guanajuato, le immagini del paesaggio montate a tempo di musica) con l'arrivo di Tulse Luper a Moab. O la carrellata circolare attorno al letto di Eisenstein con quella attorno al tavolo dell'interrogatorio di Luper nel castello di Vaux. Si valuti, soprattutto, come viene lavorato il piano visivo del film: la frammentazione dello schermo, la rottura dell'impressione di continuità, i riciclaggi, gli spazi illusionistici, le ripetizioni delle battute (e i corrispondenti echi sul quadro operati dagli split screen): sono tutte soluzioni volte a minare l'unità e la coerenza del racconto, a metterla in discussione (ne dico dopo), soluzioni che costituivano il cuore della strategia e della ricerca attuata in Tulse Luper e che non si sono viste nelle due opere successive; in Nightwatching - film straordinario, vincitore anche di un po' di premi (ma, chissà perché, non tra 'le sue opere migliori', a sentire i proclami), Greenaway doveva rinunciare a quel tipo di trattamento, pur prevedendolo in sceneggiatura, per non intaccare le possibilità commerciali dell'opera; in Goltzius & The Pelican Company (film rifiutato a Venezia, incensato in Francia e, laddove sia stato proiettato, il Festival di Roma ad esempio, accolto con entusiasmo - ma, ça va sans dire, non una delle 'sue opere migliori' -) seguiva altre strade, anche se altrettanto impervie. Adesso il nefasto 'metodo Luper' torna e, da croce che fu, guarda un po', diventa delizia: la critica è mobile qual piuma al vento, muta d'accento e di pensiero (e sia chiaro: è sempre misero chi a lei si affida).
Riassunto: ucciso dal suo (alter-) Ego (Tulse Luper), Greenaway rinascerebbe oggi, nel 2015. Grazie a cosa?  Alla proposta di un campione di quel cinema che lo aveva condotto alla morte. Ok.

The Belly of a film-maker

Eisenstein, come Stourley Kracklite ne Il Ventre dell'architetto (che è poi il film che Tulse Luper scrive a Roma - vedi The Tulse Luper's Suitcases - From Sark to Finish -), è uno straniero di bianco vestito alle prese con una creazione e con un apparato produttivo che lo pressa, gli impone una condotta e gli sottrarrà il progetto. Guanajuato è la sua Roma (la città in cui il protagonista si confronta con il Sesso e la Morte - mica per caso la prima scena romana de Il Ventre si svolge di fronte al Pantheon -) e il teatro Juarez, come il Vittoriano per la Capitale, il suo ombelico, il centro nevralgico di una scena in cui il protagonista si mette in gioco umanamente e professionalmente. Distante dalla sua Patria (PG: «Quando sei all'estero diventi una persona diversa»), in quel Messico che vive alla giornata, Sergej, libero dai condizionamenti stalinisti e aperto come non mai all'esperienza, vive la sua rivoluzione (d'ottobre) interiore. Scopre il Sesso (Palomino Cañedo, guida locale, lo svergina) e la Morte (le mummie del locale museo e il Dia de Muertos per il quale si è recato nella cittadina): la coscienza della Fine è illuminata dal presagio della sua personale morte, che accompagna il regista per tutto il suo soggiorno a Guanajuato: l'idraulico dell'albergo che batte il calorifero con il martello, rumore che persiste per tutto il film, anticipa il gesto che lo stesso Eisenstein, come spiegato alla fine, fece per richiamare l'attenzione dei suoi vicini dopo l'infarto che lo portò alla morte. E quel perdersi notturno nei sotterranei della città, quell'incrocio felliniano con figure simboliche, è, ovviamente, un'esperienza premonitoria dell'oltretomba, una sorta di inferno dantesco nel quale si condensa, in istantanee iconiche, il mondo messicano poi dipinto dal regista russo nel girato inconcluso di Que Viva Mexico!.
Ancora: anche se Sergej non lo realizza, ciò che lo turba del rintocco della campana di Guanajuato (il campanaro è sordo e cieco, come la sorte) è che, come il picchiare del martello sul ferro, costituisce il regolare memento mori che la città gli riserva. L'inevitabile dialogo sulla caducità della vita tra Sergej e Palomino - che si risolve in una fredda, quasi burocratica lista di personaggi morti - è semplice, diretto e, con studiata ovvietà, si svolge al cimitero: la scena corre in parallelo con quella del Ventre in cui il medico e Kracklite passano in rassegna i busti degli imperatori discettando sulle circostanze del loro decesso. Come in quel caso - che conduce alla rivelazione dello stadio terminale della malattia dell'architetto («Ammetterà che è confortante contemplare la follia di tutti questi morti. E d'altra parte contemplare anche la continuità») -, anche questo si chiude con la folgorazione del protagonista, la sua piena presa di coscienza dell'Inevitabile («Eisenstein will die. Like Leonardo»). Greenaway, fedele a se stesso, dribbla ragionamenti, filosofismi, poeticismi e percorre darwinianamente la strada concreta della Natura e delle sue leggi: si nasce, si vive, si muore, non c'è altro da aggiungere.
Eros e Thanatos, dunque sono, come sempre, il centro di ogni discorso narrativo greenawayano, the two non-negotiables: «Un altro argomento potrebbe essere il denaro» dice Palomino. «Il denaro può essere facilmente compreso nell'uno e nell'altro» risponde Sergej, passaggio preso di peso dal discorso tra padre e figlio al cinema in 8 donne ½, da una qualsiasi intervista rilasciata dal gallese negli ultimi trent'anni e, pavlovianamente, ovvia materia prima delle recensioni apparse su quest'ultimo film. In realtà le autocitazioni (altre ve ne sono) e i riciclaggi Greenaway li usa in chiave autopromozionale (sono un marchio di riconoscimento) e autoconservativo (ribadiscono la natura dell'opera del regista-artista come un corpus unico).

Fingere la Storia

Ma cosa accadde esattamente a Eisenstein a Guanajuato? Neanche Greeanaway (che in questi anni ha letto tutto quello che concerne il regista, archivi russi compresi, e che a lui dedicò la sua prima mostra, Eisenstein at the Winter Palace) può rispondere con certezza a questa domanda, ma, come sempre (vedasi quanto scritto per Goltzius) quello che i documenti ufficiali non dicono lo si può dedurre o inventare, in base a quanto avvenne dopo (Greenaway ha fatto notare che dopo l'esperienza messicana, a film di idee, collettivismo e propaganda - Sciopero, La corazzata Potëmkin, Ottobre - fecero seguito film che parlavano di emozioni individuali - Alexandre Nevski, Ivan il terribile, La congiura dei boiardi -).
Tulse Luper dice: «Non esiste la Storia, esistono gli storici» e Peter Greenaway aggiunge: «La Storia è solo una branca della Letteratura: chi scrive meglio è il dittatore della Storia». Ecco allora che tutto quanto si racconta nel film è tra virgolette, è un'ipotesi continuamente sottolineata, una possibilità smentibile. Non lo nasconde Greenaway, non nasconde che tra molti dati certi (tante scene riportano conversazioni e avvenimenti documentati - le telefonate tra Sergej e Pera, ad esempio, sono in parte tratte dalle loro epistole - 'Just now I was madly in love for ten days and I got everything that I desired. [...] This will probably have huge psychological consequences” queste le parole veridiche vergate -) sta sornionamente supponendo e spudoratamente inventando. Non è una sfrontata finzione quella che fonda la rappresentazione sul confronto continuo con il materiale di repertorio? Se si mostrano i personaggi di Diego Rivera e Frida Kahlo e a seguire le foto dei veri Kahlo e Rivera non si rimarca il fatto che siamo in una messa in scena e che coloro che vediamo sono solo attori? Se si usano i dipinti di Diego Rivera come riferimento pittorico fondamentale, non si sta dichiarando l'artificialità come origine stessa dell'apparato immaginativo?
E questo vale anche per Eisenstein. Soprattutto per Eisenstein che, non a caso, è continuamente ricondotto all'iconografia autentica che lo riguarda (la foto ufficiale sul trono e la scena della doccia che la dissacra, in cui Sergej, seduto su un seggio simile, si masturba). Di più: se l'immagine simbolo del regista russo in Messico è quella foto in primo piano con il teschio, se quello è il pre-testo sul quale erigere il discorso sulla morte come richiamo costante (din don dan), allora è con quella foto-icona che si stanno facendo i conti ed è quella foto-icona che occorre riprodurre. Lo si fa senza giustificazioni, dichiarando al pubblico qual è la fonte ispirativa: così si mette in posa l'attore con in mano un teschio a imitare espressione e postura dell’immagine simbolo. Eccola la verità, quella che scaturisce dall'unico atteggiamento che dia delle garanzie in tal senso: quello dell'invenzione dichiarata. In questo il cinema di Greenaway trova da sempre sponda nella ripulsa di Eisenstein per il realismo, nella sua ferma convinzione del cinema come linguaggio. Non è un caso, allora, che i discorsi tra Palomino e Sergej vertano constantemente sulla dialettica tra realtà e finzione, non è un caso che venga rimarcato che la rivoluzione russa, nella versione cinematografica di Ottobre, sia costata più di quella vera o che in ogni film si muoia e si faccia sesso per finta («We give you license to show us people dying and fucking when we know that they are not - and you know that they are not - and we know that you know that we know they are not»). Ma quella dell'artificialità è una costante dell'intero film: dal gigantismo della camera da letto (che evidentemente non lo è), al carattere cartoonesco dei personaggi (i camorristi, la moglie di Upton Sinclair), dalle evidenti contraddizioni (perché Sergej e Pera - che poi diverrà la sua sposa-paravento - parlano tra loro in inglese?) alle riprese con back projection, dalle prospettive deformate fino ai filtri ultrasaturi scelti per gli scorci della città messicana.
Del resto Eisenstein è in quella terra per Que Viva Mexico!, il suo primo documentario, il primo confronto con la realtà da filmare dopo tante messe in scena; per questo, trovandosi in braccio il bambino morente si sente inadeguato alla circostanza: la morte lui l'ha affrontata sempre e solo sul set; per questo il soggiorno a Guanajuato costituisce per lui una rivoluzione anche sul fronte erotico: nella Russia omofoba Sergej ha sempre vissuto nella finzione (l'omosessualità nascosta, consegnata a immagini metaforiche, a disegnini a matita mai mostrati): ha recitato una parte, si è messo in scena nel modo ritenuto più conveniente alla luce delle circostanze; in Messico il copione sparisce, Sergej si compenetra nella Realtà e la sua omosessualità viene dichiarata, agita, vissuta con passione 'autentica'.
«Una cascata di vomito e merda, non dovrei essere qui. Dovrei tornare in Russia dove sei sempre costipato e puoi rimanere anche una settimana senza cagare» dice il protagonista quando lo colpisce la 'maledizione di Montezuma”: a Guanajuato il Regista diventa Uomo, con le sue fragilità, le sue debolezze, la sua verità.

Le valigie di Sergej Eisenstein

Il discorso sulla relatività della Storia Greenaway lo porta avanti attraverso le soluzioni sperimentate ne Le valigie di Tulse Luper: la frantumazione della continuità serve a disabituare lo spettatore al modo consueto di guardare il film, di immergersi in esso, di immedesimarsi in quello che viene raccontato. Serve a creare nel pubblico un distacco critico, a non intrigarlo. La narrazione non è chiusa, al contrario, è apertissima a qualsiasi interpretazione, piena di note a margine, di finestre, di biforcazioni, di reiterazioni (le battute ripetute tre volte con modalità diverse, lo schermo stesso tripartito) che suggeriscono che quanto messo in scena non ha un unico senso e non ha un’unica dimensione (temporale, spaziale: lo propongo qui e ora, potrei proporlo più avanti o altrove, potrei non proporlo). Ripetere le battute serve a scuotere lo spettatore, a insinuare il dubbio, a spezzare l'ipnotizzante linearità, a far considerare il film come insieme di parti e non come un tutto organico. Per questo ne Le Valigie (film che - ribadisco - la critica italiana ha massacrato e che è passaggio fondamentale da cui scaturisce tutto il Greenaway che vediamo oggi, soprattutto questo Eisenstein che, però, mi piace ricordarlo, al contrario di quella famigerata saga, vanterebbe «l'energia coinvolgente delle sue opere migliori») Luper, da personaggio mitico come si scopre essere (ma la critica italiana non l'ha mai saputo, essendosi fermata prima della fine) appare con fisionomie diverse, a volte addirittura contemporaneamente presenti nella stessa scena: perché quanto si narra è una ricostruzione, una possibilità, e come tale si propone, nell'ambito della rappresentazione stessa, un'alternativa che vale per le mille altre ipotizzabili. E le ipotesi possono essere tutte fallaci, fantasiose, infondate: è il caso di ricordare che il paese di H in A Walk Through H (1978) non esiste se non sulle mappe esaminate da Tulse Luper nel corso del film e che, come recita la voce del narratore, «in ogni caso il viaggiatore ha creato il territorio attraverso il quale ha camminato»?
All'esigenza di rendere questa relatività (obiettivo che, come detto, è presente fin dalle prime opere del gallese) risponde anche il momento più alto di Eisenstein in Guanajuato: lo stupefacente carrello che si muove dall'interno all'esterno e su tutti i lati del teatro Juarez, montato come un piano sequenza che, prima che essere falso, è dichiaratamente impossibile. Cosa ci dice Greenaway con quella che può sembrare solo un'esibizione di estro e abilità? Che la realtà non si cattura, che i fatti sono sempre deformabili, che persino quel momento che dovrebbe vantare una continuità, può essere manipolato: che il cinema è il risultato di una tecnica soggetta a leggi precise, quella sequenza un artefatto, quello naturalistico un procedimento di mimesi passivo, approssimativo.
Ma, lo ripeto, niente di nuovo: basterebbe riguardarsi uno qualsiasi degli episodi di Tulse Luper per ritrovare questo spirito, questa teoria, queste dinamiche (anti)narrative, questo umorismo e questo fulgore visivo. Persino questo personaggio: Eisenstein (come Luper o Rembrandt, come Goltzius) è sempre e comunque Greenaway («sono uno scienziato dilettante con interessi enciclopedici» dice Sergej), un artista alle prese con una macchina produttiva soffocante, con il fantasma dell'incompiutezza che aleggia su ogni sua opera. La sospensione e lo snaturamento del proprio lavoro, l'inevitabile doloroso compromesso, la svendita della propria arte, di tutto questo parla da sempre Greenaway nei suoi film e in maniera ancora più decisa negli ultimi, dedicati a personaggi realmente esistiti (Rembrandt, Goltzius, Eisenstein, in attesa del Costantin Brâncuși del possibile, prossimo Walking to Paris). Perché sì, se Eisenstein in Messico vive la sua palingenesi, gira anche un'enorme quantità di materiale (70 mila metri di pellicola per 40 ore di girato) che, rimasto nelle mani del suo mecenate Upton Sinclair, non avrà mai modo di montare e che sarà integralmente restituito dal MoMA all'Unione Sovietica solo nel 1973. E mi è impossibile non vedere nei tentativi postumi di dare a Que Viva Mexico! una forma il più possibile vicina alle intenzioni del maestro russo, un parallelo con i tentativi degli esperti di ricostruire il Vertical Feature più vicino alle intenzioni dello scomparso Tulse Luper (si veda il film manifesto Vertical Features Remake, fondamentale per capire ove puntava e punta il cinema di Greenaway e quanto compatta sia la sua filmografia a dispetto di coloro che parlano di colpi di testa, di sole, di sonno - il loro -).

«Chi mi critica dice che sono troppo interessato alla forma e non abbastanza al contenuto (...). Il linguaggio stesso è un contenuto che confonde e disturba questi critici senza arte né parte».
(Sabine Danek, Torsten Beyer, Blasphemy in Cinema: An Interview with Peter Greenaway).

Film A

Greenaway, che è un manipolatore (e che diventa didascalia dichiarata della sua opera: il regista  introduce e chiude il film in voice over) sa cosa deve fare per vendere (ne parlavo a proposito di Goltzius, a cui ancora una volta rimando): nell'intervista che mi ha concesso parla esplicitamente di una modalità produttiva che riassume in uno schema A - B:

«Realizzavamo un film A che speravamo fosse problematico, che proponesse sì delle idee ma che risultasse abbastanza ortodosso, tanto da farci guadagnare credibilità presso le banche. A quel punto facevamo un film B, molto più sperimentale. E così si andava avanti: film A, film B, film A, film B. Ma è successo che ho cominciato a fare un film B dopo un film B. E poi ancora un film B... Ho percepito allora che i miei spettatori più conservatori cominciavano a sparire perché per loro quei film stavano diventando troppo difficili. The Tulse Luper Suitcases è stato decisamente un film B. E così abbiamo riflettuto su questo».

Eisenstein è senz'altro un film A, perché se è eisensteiniano nel senso in cui lo intende il regista (PG: «Grandi idee sostenute consapevolmente in un flusso inarrestabile di immagini») e ne omaggia, dunque, con le sue spudorate frantumazioni, la teoria del montaggio, è anche concepito per vendere e per piacere, il tipo di lavoro anti-hollywoodiano (leggi anche: scandaloso) che la nicchia di mercato che il gallese si è scavato in questi anni si attende da lui; un’opera, in cui il protagonista (non qualsiasi: uno dei padri fondatori della Settima Arte, con tutto il portato di sacralità che questo implica tra gli amatori: c'è dell'iconoclastia anche in questo film profanando, come fa, un'immagine intangibile della religione cinefila) offre la sua nudità frontale già al settimo minuto e, ça va sans dire, come al solito, senza nessuna (apparente) necessità. Del resto (ancora la mia intervista) perché Greenaway ha scelto il maestro russo?
«Perché era ebreo, comunista, omosessuale».

Ed è un film semplice come lo era Il ventre dell'architetto (che veniva dopo un catastrofico flop, il film B Lo zoo di Venere): un'opera lineare, lontanissima dalla vertiginosa struttura di Goltzius (altro B destinato al fallimento, lavoro abissale di ben altro spessore e coraggio): al forbito eloquio di Goltzius fa allora riscontro l'allegro vaniloquio del protagonista di questo, alle discettazioni teoriche su Arte, Storia e Religione e all'umorismo raffinato del precedente fanno da controcanto il gossip declinato in chiave enciclopedica (ho conosciuto Walt Disney, Jean Cocteau, Charlie Chaplin, Greta Garbo, Man Ray etc) e la grana grossa di una bandiera rossa piantata nel culo, senza se e senza ma. Greenaway, è il caso di ricordarlo, è sempre stato un umorista, un burlone di spirito tutto britannico alla maniera dei Monty Python: dietro le sue grandi architetture visive, dietro la scrittura vorticosa, dietro gli apparati intellettualistici c'è sempre stato il divertimento, la presa in giro, la caricatura (Eisenstein come un pagliaccio triste), il ritratto barocco ed esagerato (in questo senso questo film può avvicinarsi a certe biografie rilette dall'esuberante cinema del mai troppo lodato Ken Russell).
A dirla tutta un altro elemento avvicina moltissimo questo film al Ventre: il ruolo fondamentale dell'attore. Greenaway ha più volte affermato che con il film del 1987, grazie al lavoro svolto con Brian Dennehy (PG: «Mi ha insegnato moltissimo»), il suo rapporto con l'attorialità si è profondamente modificato: è quanto accaduto anche con questo film che si regge letteralmente sulle spalle di un prodigioso Elmer Bäck che - si legga l'intervista a Marco Robino - ha avuto un ruolo essenziale nella concezione del film e in alcune modifiche apportate al progetto iniziale (uno sguardo alla sceneggiatura). Perché in Eisenstein, come nel Ventre, al centro dell'analisi,c'è un uomo messo a nudo spiritualmente e fisicamente. Eisenstein è fatto di parole (la sua logorrea è incessante e gioiosa ed assecondata dal movimento incessante e gioioso della macchina da presa), ma è anche un corpo (lacrime, sangue, sperma, vomito, escrementi), come lo era Kracklite nel Ventre.

Così, in Guanajuato, tutto è preordinato per colpire: come ha spiegato il regista nella conferenza stampa a Berlino, la scena del rapporto sessuale (unico, ma memorabile, sostenuto dalle migliori battute del film) è consapevolmente rilevante. The fuck, che ha il compito spudorato di fomentare la chiacchiera mediatica, è posto esattamente a metà  film, «come il gioiello sulla corona». La struttura del resto, anche se meno segnalata del solito, è dittatoriale: il film si snoda attraverso dieci giorni (da giovedì 22 ottobre al sabato 31 ottobre 1931); il rapporto sessuale, come detto, coincide con l'arrivo del quinto giorno; il film si apre e si chiude con il regista sull'auto: l'arrivo di un Eisenstein sereno e concentrato sul lavoro da svolgere (inizio, il regista) e la partenza di un Eisenstein tormentato e in lacrime (fine, l'uomo). Quello sbattere ripetuto della portiera, non appena il regista arriva a Guanajuato, è il segnale dell'inizio dell'avventura e trova la sua eco nel medesimo gesto che sottolinea la fine della stessa, quando Eisenstein, risalito in vettura, lascia la città (le mosche russe, disperse all'inizio, tornano a tormentarlo),
Eisenstein in Messico [1], tirando le fila, è un film a suo modo trattenuto, che rinuncia a una serie di motivi complessi presenti in sceneggiatura, che propone personaggi che rimangono solo come accenno (Kahlo e Rivera avevano bel altro rilievo nello script originale), un lavoro che vive di compromessi evidenti e dolorose forzature (la musica di Prokovief, su cui Greenaway lavora superbamente solo nell'incipit, rinunciando per il resto del film a quel lavoro di miracoloso equilibrio tra note e immagini che è uno dei suoi indiscutibili talenti). Un lavoro  in cui si parla della passione di Sergej e Palomino ma che, paradossalmente, di questa passione non fa emergere che poche tracce, facendola avanzare per blocchi indipendenti, privi di reali collegamenti, e che consegna al solo finale (la scena del dialogo tra Sergej e la moglie di Palomino) un momento di forte, commovente tensione drammatica. Ma  è anche un film che conferma Greenaway come regista di inesauribile inventiva visiva, ancora entusiasta del mezzo, pronto a utilizzarlo alla sua maniera, a celebrarlo (le innumerevoli citazioni: Truffaut, Renoir, Resnais, Scorsese eccetera - scovatele -), usando - come oramai d'abitudine - un digitale fiero e urlato.
In definitiva, dopo che ai suoi film sembravano disinteressarsi anche i Festival e dopo l'insperato BAFTA alla carriera, che gli ha spalancato porte che sembravano irrimediabilmente chiuse (compresa una produzione televisiva), Eisenstein in Messico - forse l'unico, vero (anche cosciente) capitolo minore di una filmografia maiuscola -  è l'opera giusta al momento giusto: è accettata in concorso alla Berlinale, viene  accolta da applausi e clamore (il sesso a potenziarlo), riesce a essere venduta in tutto il mondo, ridesta la critica che ha fatto la gnorri per anni (per quella tendenza al tatticismo che ne contraddistingue una bella parte e sul cui opportunismo, lo sappiamo, Greenaway contava - il film A è un'esca gettata anche a lei, ça va sans dire -), permetterà al maestro di gestirsi con meno affanni l'ultimo scorcio di una carriera vissuta sempre all'insegna del rischio di cambiare e del coraggio di seguire l'evoluzione della tecnologia. Va bene così.