TRAMA
La vita di Jang Seung Up, il più grande pittore coreano dell’ottocento, dalla miseria dell’infanzia al mistero della sua scomparsa, attraverso il genio e l’irrequietezza nei confronti della natura, della vita, dell’arte.
RECENSIONI
L'ultimo film (il novantacinquesimo) dell'ultimo esponente della vecchia scuola cinematografia coreana, Im Kwon-Taek (classe 1936), è l'ultima tappa di quella ricerca sulla drammaturgia della forma nel cinema, ovvero sulla capacità del mezzo cinematografico di concepirsi in base ad un principio polifonico, che ha in precedenza caratterizzato il lavoro sull'audiovisivo di molti tra i più grandi autori della settima arte (Ejsenstejn, Vertov, Coppola, Wenders, Makhmalbaf, Kiarostami, Derek Jarman). Se Ejsenstejn lavorava tra il vedere e l'ascoltare, e aveva inventato il cinema audiovisivo prima del cinema sonoro (Il vecchio e il nuovo), e Derek Jarman aveva optato decisamente per l'ascoltare (Blue), Im Kwon-Taek decide per il vedere. E all'interno del vedere, il 'grande vecchio' del cinema coreano cerca e trova la propria koiné aisthesis (unità del «sentire»), e precisamente nel mistero della tecnica del Chong Chun-Dong: ovvero del 'movimento (Dong) all'interno della fissità (Chong)' ¹. Ebbro di donne e di pittura è un film sulla memoria, e sull'amore per l'arte della pittura (e del cinema). Ma cos'è la memoria, se non il tentativo di fissare il movimento del tempo nei ricordi degli uomini? E cos'è l'arte (plastica), se non il tentativo di fissare il flusso della vita (il movimento di dissoluzione) all'interno della salvaguardia dell'apparenza (la fissità della 'mummia'). Nel film di Im Kwon-Taek la memoria è chiamata in causa, da una parte, dalle regole intrinseche del genere biografico, dall'altra, dalla grande cura profusa per la ricostruzione storica (la Corea del XIX secolo). La biografia è quella del pittore Jang Seung Up, artista alla perenne ricerca dell'ispirazione perfetta, e uomo tragicamente proteso oltre l'incapacità di dare un senso di misura ai propri limiti. Ma il film di Im Kwon-Taek è anche un film sull'ebbrezza della libertà e dell'avventura (sessuale, artistica, sociale, storica), intesa come volontà di conoscenza totale e totalizzante verso il mistero della natura e della vita, fino al sacrificio estremo in nome della perfezione artistica. Ed il film è interamente giocato sull'idea del movimento verso qualcosa di irraggiungibile, che trascende i limiti dell'esperienza umana, e dell'inevitabile fissità finale di ogni tentativo di avanzare (l'arrivo come un nuovo punto di partenza). Ma come la pittura alla quale aspira Jang Seung Up, non ha bisogno della poesia, perché la vera pittura è capace di far parlare le forme, così il cinema di Im Kwon-Taek aspira all'annullamento del movimento ('la mia macchina da presa ideale è fissa'), perché nella perfezione della composizione dell'immagine visiva il movimento scaturisce 'dall'attitudine della nostra immaginazione a lavorare' ², ovvero dall'energia che propaga la complessità del gesto artistico compresso all'interno di uno spazio fisico e temporale limitato. E viene in mente la genesi ontologica (prima ancora che tecnologica) del cinema come crisi e compimento insieme della convulsa esistenza dell'arte barocca: illusione dell'immagine in movimento, non più immagine dell'illusione del movimento. Se la forma riesce a parlare, l'immagine non ha più bisogno del movimento per muovere il sentire. La schematizzazione del senso (immagine) è tutta demandata ad 'una dimensione del sensibile che è più originaria rispetto al visivo e al sonoro' ²: la nostra immaginazione. Un'immaginazione al lavoro sopra una prospettiva che è prima di tutto visiva, nella simultaneità del sentire. Il cinema di Im Kwon-Taek raggiunge la «quarta dimensione», quella dell'immaginazione, grazie alla grandiosa ricerca sulla costruzione visiva. E se le lente panoramiche sui tavoli imbanditi e sulle vivande dai mille colori, un po' dispiacciono, perché tradiscono quel senso potente di travalicamento della tridimensionalità suggerito nella costruzione statica di altre bellissime composizioni fisse, Im Kwon-Taek riesce comunque a trasmetterci quell'ansia d'ispirazione creativa verso cui per tutto il film è protesa la ricerca del protagonista. Solo con il coinvolgimento totale-e-totalizzante, dall'interno del sentire, di chi guarda e ascolta, è possibile quell'assimilazione tra immaginazione e creazione (tra memoria e mistero). E significativamente, alla fine, Im Kwon-Taek spinge il protagonista nella fornace dove si cuociono i vasi. Solo con il sacrificio completo di noi stessi si può andare in cerca della quarta dimensione: l'ispirazione perfetta. Im Kwon-Taek ci è riuscito. E il festival di Cannes dell'anno passato si è ricordato di ricordarcelo (premio alla regia). Il più bel film sull'arte, e la migliore arte cinematografica di questi ultimi tempi. Consigliato a tutti coloro che sono capaci di apprezzare il vero cinema, e a tutti coloro che non ne sono capaci, perché questo film è in grado di insegnarlo.

Su un rettangolo di carta linda e irregolare, un pennello lievissimo e furibondo traccia un’oscura vertigine, che attrae e respinge lo sguardo: il sobrio sipario dei credits svela una lezione di pittura che è al tempo stesso audace negazione e obliqua affermazione delle regole categoriali e formali cristallizzate dai servi imbecilli delle convenzioni. Il magnifico prologo delinea, con meticolosa sintesi, il tema portante del film, la segreta e sanguinaria battaglia di rispetto e rivolta, studio e istinto, imitazione e invenzione, il cui esito deve essere un’arte antica e nuova insieme, un albero capace di conciliare la bellezza opaca del terreno che l’ha nutrito e il misterioso splendore del cielo verso cui tende i rami. La natura sdoppiata (schizofrenica?) della creazione artistica si riverbera nella vita del pittore Jang Seung Up, fatta di opposizioni apparentemente insuperabili: le umili origini e il favore dei Re, le copie dei dipinti classici e le creazioni originali a tal punto perfette da essere fin da subito oggetto di ammirazione (e di copie), il lusso dei palazzi e dei bordelli e la miseria delle bettole e degli atelier. L’incessante giostra di passioni rivali non può trovare conclusione che nel fuoco, estrema metamorfosi: la vita dell’artista cede alla morte per infondere vita immortale all’opera d’arte, limpida e crudele fenice la cui bellezza attraversa i secoli e le leggende. EBBRO DI DONNE E DI PITTURA, premio per la regia a Cannes 2002, riflette con intelligenza il nucleo doppio e, per questo, vitale della fabula: è una puntigliosa biografia in cui il racconto dei fatti è l’ultimo dei problemi, una ricostruzione filologica non di eventi storici ma di pensieri e sensazioni universali perché fuori dal tempo. La Storia è un’eco lontana (la didascalica, scheletrica voce off) che emerge solo a tratti, per dimostrarsi un vacuo esercizio di sopraffazione reciproca, che ostacola, senza interromperli, il corso eterno delle stagioni e il flusso sfavillante delle forme e dei colori. Allo stesso modo, il film rende conto della vita del pittore (dall’infanzia di stenti alla morte ricca di incognite) attraverso microsequenze fulminee, spesso brutalmente sintetiche, volutamente colme di omissioni, composte da inquadrature fisse raffinatamente (pre)disposte, pannelli di cerimoniale austerità impreziositi da un’elaborata rete di corrispondenze fra la natura (l’opulenza della vegetazione, il precipizio delle acque, il tremolante regno del fuoco) e la visione pittorica (i trionfi paralleli dei pruni “veri” e “imitati”, il voyeurismo e il cannibalismo reciproco di vita e arte). Il regista, assistito dalla splendida fotografia di Jung Il-sung, schizza un universo (im)materiale che concilia abilmente il trompe-l’œil (il lenzuolo di seta, che proietta la propria squisita consistenza oltre il rettangolo dello schermo) e lo sfondamento prospettico (l’uso della profondità di campo), l’unità della composizione e il gioco dei polittici (le inquadrature asimmetricamente ripartite, non vezzo ma efficace mezzo espressivo), la gioia incorporea della rappresentazione e le lacrime di sangue dell’esistenza. Alcune goffaggini di sceneggiatura e qualche scena madre non brutta ma di routine; per il resto, siamo nell’anticamera (nel laboratorio?) del Cinema, dell’immagine pura e meravigliosamente semplice, senza parole.

Vincitore del premio per la miglior regia a Cannes 2002 (giuria presieduta da un certo David Lynch), Chihwaseon (il titolo italiano Ebbro di donne e di pittura grida vendetta) è senza dubbio tra i film più personali di Im. Nella vicenda biografica di Ohwon, pittore insofferente alle regole e spaventato dall’aridità della ripetizione, è difatti impossibile non leggere una riproposizione sotto mentite spoglie di alcuni tratti appartenenti al celebrato cineasta coreano. La condizione giovanile di emarginato (dovuta per Im alla militanza del padre tra i partigiani comunisti), il tormentato rapporto tra sudditanza e ribellione con le istituzioni e le direttive ufficiali (per molti anni Im ha infatti prestato il suo sguardo a pellicole commerciali o ideologicamente supine alle indicazioni del regime anticomunista), il debole per l’alcool (Im stesso ha dichiarato che tra gli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta tutti i soldi che guadagnava li spendeva “principalmente bevendo”) e l’esigenza di elaborare un nuovo stile per non finire prigionieri delle proprie formule (è nel 1981 che Im, con Mandala, riesce a rigenerare il suo cinema, distillando un nuovo linguaggio visivo): questi momenti scandiscono sia la vicenda di Jang Seung-up che quella di Im Kwon-taek, che in Chihwaseon, raccontando la storia del pittore, racconta se stesso. E racconta, per estensione, la storia della Corea funestata da rivalità politiche e guerre civili (i Conservatori fiancheggiati dalla Cina contro i Riformisti spalleggiati dal Giappone) in un quadro di progressiva perdita di libertà e autonomia (siamo nella seconda metà del XIX secolo, durante l’agonia della plurisecolare dinastia Chosun). Ovviamente Im sta parlando anche del presente, dando voce al dolore della divisione nazionale e facendo appello a un profondo sentimento di unitarietà in grado di superare fratture interne e dissidi ideologici (forse è utile ricordare che la spaccatura attuale è un fenomeno che contraddice penosamente qualcosa come 1200 anni di unità nazionale). Ma non è solo da un punto di vista velatamente autobiografico e politicamente metaforico che Chihwaseon si attesta come uno dei film più personali di Im: l’impronta narrativa e visiva rivela una compiutezza estetica mirabile nella scansione dei tempi del racconto (un flashback brutale e massiccio di circa un’ora, tipico del modus narrandi del cineasta coreano, genera una temporalità orgogliosamente ostica) e nell’asprezza dello sguardo (Im qui non ricorre al découpage, nel senso che non frammenta lo spazio in funzione della leggibilità drammatica, ma articola il punto di vista e muove la macchina da ripresa secondo parametri profondamente eccentrici, in bilico tra guizzo furioso e insistenza ostinata). Tuttavia, come in Chunhyang, la ricerca dell’iscrizione nella cornice naturalistica precipita spesso e volentieri nell’enfasi estetizzante (campi lunghissimi, fiocchi di neve al rallentatore, immagini “poetiche”), cozzando violentemente con la “qualità grezza” (Bertolin) dello sguardo, che costituisce senza ombra di dubbio il tratto stilistico assolutamente centrale e caratterizzante del cinema di Im.
