TRAMA
Maria Werla Kowalski racconta l’odissea degli ebrei polacchi sotto il regime nazista.
RECENSIONI
La signora Maria si passa la mano tra i capelli, scambia una vacua parola con il figlio, siede davanti alla cinepresa. Tutto qua. A chiusura di una trilogia sulla rievocazione della tragedia Kowalski decide di mettersi da parte, ascoltando la madre e registrandone la lunga testimonianza; un monologo brullo e sguarnito che indugia sul volto della donna per quasi 100 minuti e, prosciugato volutamente ogni orpello ingombrante (non esiste scenografia, si dissolve l’elemento di disturbo anche visivo), trasforma il film nelle pieghe stesse del suo volto, l’urgenza di raccontare, l’orgoglio irrinunciabile della sua persona e l’ostinazione a rimanere primamente, malgrado tutto, una donna. Parole che passano dal tenero della rievocazione giovanile all’orrore nazista, indelebile, mostrando i vari strati dell’emozione; ora contenuta ora trasportante e commovente. Il “film” in senso stretto ne esce volutamente barcollante dato che la vista è stavolta azzerata in favore dell’udito, dell’allusione e dell’immaginazione, dallo scabroso pernottamento nel carro bestiame al pasto arrangiato con pulci e roditori (Almeno erano proteine). L’istante visivo deraglia nel territorio della realtà: la nuda testimonianza diventa simulacro del ricordo da tramandare che, sfidando la logica tradizionale in assenza di preparazione e/o sceneggiatura (Quando inizio un film non so mai come finirà, così l’autore), raggiunge un effetto talmente umano ed anticinematografico da non potersi ingabbiare nel consueto gelo del voto.

Terzo capitolo della “trilogia della memoria” My Wild Wild East, iniziata da Kowalski con The Boot Factory (2000) e proseguita con On Hitler’s Highway (2002), viaggio sull’autostrada che attraversa la Germania, fatta costruire da Hitler per facilitare la deportazione nei campi di concentramento degli ebrei, con East of Paradise il regista sembra voler chiudere i conti con il proprio passato di immigrato polacco negli Usa, ripercorrendo il viaggio della madre deportata in Siberia durante la seconda guerra mondiale e la propria esperienza di documentarista nella New York degli anni Settanta e Ottanta, tra controcultura, punk e droghe. Mentre i primi cinquanta minuti costituiscono il lungo e commovente resoconto della madre sopravvissuta al freddo e ai lavori forzati, filmato senza mai staccare dal suo volto sofferente, la seconda parte, sintesi visiva del percorso artistico dell’autore resa mediante un collage di frammenti che documentano la vita e la morte dei suoi più cari amici, convince solo in parte. Sebbene il regista abbia sottolineato il carattere soggettivo del suo lavoro, nel momento in cui cerca di stabilire un legame tra la condizione di sopravvissuta della madre e le pulsioni autodistruttive dei giovani “ribelli” suoi coetanei, tutti vittime di un potere senza volto, fa virare il discorso da privato ed intimo a storico e socio-culturale: per questo, l’equiparazione suona arbitraria, moralmente e storicamente inaccettabile.
