
TRAMA
Ferrara, all’inizio del Cinquecento. Il duca Alfonso è oggetto di una congiura ordita da due dei suoi fratelli.
RECENSIONI
Alla corte degli Este dame e gentiluomini si avvelenano a vicenda con fastosa ferocia. La maschera della menzogna ricopre tutti i volti (l’insabbiato agguato ai danni di Giulio, la farisaica cerimonia di pace, l’infido giudizio di Paride), solo il buffone di corte la indossa non per avvilire ma per salvare il suo prossimo: gli sarà fatale l’eccessivo attaccamento alla parte affidatagli dalla fortuna. Vancini firma una tragicommedia in costume in cui evidenti sono gli echi di Shakespeare (la crudeltà tutta elisabettiana del supplizio di Giulio) e di un Victor Hugo filtrato dal melodramma ottocentesco (e se Lucrezia Borgia è una figura secondaria, il giullare Moschino presenta varie affinità con Rigoletto, dai problemi fisici alla vocazione per gli attentati fallimentari), senza dimenticare le reminiscenze ariostesche (del resto il buon Ludovico compare in persona ogni sette inquadrature circa) e le tracce della grottesca e agghiacciante epopea contadina del Ruzante. Tante, dunque, le illustri fonti d’ispirazione: anzi, troppe. Appesantito da dialoghi polverosamente teatrali, fiaccato da riferimenti stucchevolmente didascalici (la lezioncina sull’Orlando furioso, l’apparizione-cartolina di Tiziano) non meno che dalla storia d’amore/amicizia/stima fra Moschino e la working girl Martina, affossato dalle incessanti musiche di Morricone, abbandonato al proprio destino da una regia votata al calligrafismo più trito, E RIDENDO L’UCCISE risulta, nonostante la discreta prova del cast, l’indubbia sapienza iconografica e almeno una sequenza riuscita (quella finale), slabbrato e poco interessante, acerbo e insieme prematuramente invecchiato. Intendiamoci: nulla di tremendo, ma, viste le premesse, era lecito attendersi qualcosa di meno imbalsamato.
