TRAMA
Eva è la madre di Kevin che, a sedici anni, ha preso il suo arco e ha fatto una strage a scuola.
RECENSIONI
- You just can't get uncomfortable enough, can you?
- Uncomfortable? With my own mother?
Al terzo lungometraggio Lynne Ramsay si cimenta per la prima volta con un soggetto non originale - l'ottimo romanzo della scrittrice Lionel Shrivers - e allarga lo spettro di attenzione su una filmografia da sempre rigorosa, personale, sperimentale, mai concessiva: in We need to talk about Kevin l'autrice prosciuga le cinquecento densissime pagine del testo di partenza, adattandolo per lo schermo - si prenda l'espressione alla lettera - senza rinunciare al suo stile, a una ricerca che affida agli strumenti cinematografici ogni esigenza espressiva, ricorrendo, come d'abitudine, a pochissime linee di dialogo. Nulla è casuale nel suo cinema fieramente femminile (una femminilità tormentata e in dialettica continua con la morte): la composizione delle inquadrature è studiatissima, ogni effetto soppesato (dallalternanza dei piani focali ai circostanziati ralenti), il sound design riveste unimportanza capitale (Ramsay lo utilizza spesso e volentieri in chiave soggettiva, restituendo il panorama sensoriale del personaggio), i brani musicali risuonano strategicamente, i filtri cromatici sono calcolati al millimetro; così il colore rosso - richiamando il sangue che non vedremo - domina: dall'evocazione quasi onirica di un viaggio passato (la dionisiaca festa esotica) alla vernice lanciata contro la casa della protagonista, testimonianza visibile della sua condizione attuale, marchio che racconta il suo dramma senza mediazioni, senza necessità di spiegazioni ulteriori. E' una costante dell'opera dell'autrice (cortometraggi compresi): la narrazione è la visione; che sia ambientata nella Glasgow proletaria di Ratcatcher, che dica della muta ribellione della protagonista di Morvern Callar o, come in questo caso, dell'implosione di un nucleo familiare che devasta anche il mondo esterno, essa procede per immagini e suoni (di cui i dialoghi sono parte, e non necessariamente essenziale).
- Gne gne gne gne gne gne.
La vicenda della protagonista viene raccontata - altra costante - per frammenti che il montaggio ha il compito cruciale di disporre significativamente; sono due i livelli temporali che procedono in coerente successione: quello dell'infanzia e adolescenza di Kevin, da un lato, e, dall'altro, il tempo presente della protagonista che, dopo il massacro perpetrato dal ragazzo, trovato lavoro in un'agenzia di viaggi, abita in una brutta casa vicino alla ferrovia e fa settimanalmente visita al figlio in carcere; a questi due filoni si incrociano sequenze di diversi passati, richiamate per assonanze, impressioni ed evocazioni. La prospettiva è rigorosamente soggettiva: i pezzi di passato che emergono sono quelli che Eva richiama alla memoria in un'indagine interiore che, decostruendo gli eventi, tenta di rivenirne il senso, un flusso mentale che la regista restituisce alla sua maniera, sciogliendo ogni nodo in un'idea visiva, idee che legano ellitticamente i vari livelli cronologici (Eva che nella nuova casa vernicia una stanza di azzurro, lo stesso azzurro che dominava la camera di Kevin, mostrata con il flashback a seguire; un trait d'union che ci dice anche che nel livello presente lei attende di riaccogliere il figlio).
- Can you say "elephant", Kevin? "Elephant". ""E-le-phan-t".
E' uno stile straordinariamente aderente alla sostanza, che riesce a renderne le sfumature attraverso i dettagli, assecondando intuizioni immaginifiche folgoranti e in più facendo emergere Ed ora parliamo di Kevin come un film tra i più problematici e complessi sul tema della maternità. La questione delle stragi nelle scuole americane non è che il risvolto tragico ed estremo del punto centrale: la difficoltà a ricoprire il ruolo genitoriale, le delusioni, le aspettative frustrate, gli ostacoli interiori ed esteriori che esso comporta; un approccio tanto più lodevole quanto più si evidenzi la capacità della regista di trattare il tema senza scorciatoie retoriche (e il riferimento è a certi disastrosi tentativi recenti, come quello della Comencini di Quando la notte) e senza compromessi didascalici, ma, appunto, piegando il groviglio di implicazioni testuali al proprio stile, al proprio modo di interpretare l'arte di messa in visione.
Ramsay allora gioca di fino, alternando i registri, ricorrendo spesso a codici horror: la splendida sequenza di Halloween; la tensione che trasuda dai continui sottintesi, dagli scarni scambi di battute, dai non detti; l'enigmaticità della figura di Kevin, tenuta sempre alta senza cedere mai a un tentativo, anche sottotraccia, di decodifica forzata del suo comportamento; l'uso del suono: nell'incipit il rumore degli irrigatori, in funzione nel giardino nel quale giacciono - ma lo scopriremo solo nel finale - i cadaveri di Franklin e Celia, scandisce la soggettiva di Eva che si avvicina alla finestra che le rivelerà la macabra scena; l'ossessivo rumore degli spruzzi costituirà uno del leit motiv del film, annunciando alcuni eventi topici: il deturpamento con l'inchiostro dello studio di Eva, la scoperta dello scarico intasato - l'animaletto di Celia -, la perdita dell'occhio della bambina, fino, per l'appunto, all'apoteosi delittuosa finale.
- Then what's the point?
- There is no point. That's the point.
Tilda Swinton è straordinaria nel rendere il percorso di questa donna che, cercando con l'impegno e la dedizione di compensare la sua anaffettività, denuncia proprio in tale sforzo la propria inadeguatezza. Attenendosi pedissequamente al codice della mamma perfetta, Eva svuota quel ruolo del suo senso, intrappolata in una vita in apparenza dorata, ma profondamente diversa da quella che aveva sognato - lei scrittrice ed editor di successo, che ha visto il mondo e vissuto l'amore passionale con l'uomo che è diventato suo marito - e trascinata e ritrovatasi prigioniera di una gabbia levigata, di una vita borghese deprimente e di una maternità tardiva che ha vissuto con disagio, lo stesso che ha trasmesso da subito al figlio (basti quell'immagine di Eva spersa e imbarazzata nel gruppo di donne incinte, gioconde e soddisfatte del loro pancione). Kevin ha avvertito già da neonato quel disagio, il suo pianto - rivolto ossessivamente alla madre e solo alla madre -, era da subito una richiesta e un rimprovero. Kevin del gelo materno si traveste, disciplinandosi, non attaccandosi a niente (ché ogni desiderio è una debolezza), non manifestando esigenze, gusti, preferenze (la sua stanza nuda lo rispecchia ed è già una cella), divenendo cinico, diabolicamente dispettoso, glacialmente calcolatore (il massacro lo programma tre giorni prima del suo sedicesimo compleanno per non essere sottoposto al giudizio alla stregua di un adulto; l'ultima scena ci dice che i giudici non ne hanno tenuto conto) ostentando d'essere indifferente a tutto, specchio pedante di un mondo orrendo che non vuole elaborare e che rivomita vendicativamente uguale a come gli appare.
- I want to tell you, why?
- I used to think I knew. Now I'm not so sure.
Ramsay riesce nella difficile impresa di trattare anche le emozioni come fatti, componendo il film come un organismo vivo, che pulsa e disturba, molto affidandosi agli interpreti (Kevin è Ezra Miller, visto in Afterschool) e alla narrazione franta, screziata dalle sghembe melodie di Jonny Greenwood (Radiohead); un film che, non suggerendone nessuna, invita a molte letture (psicanalitiche, sociologiche, anche politiche), ma senza crogiolarvisi, anzi, preferendo la sospensione dei dibattiti e ponendo sul piatto il rapporto tra una madre Antagonista (il conflitto è continuo e si gioca su un terreno che è palese solo per i due contendenti), Vittima (l'episodio del braccio rotto è quello che stabilisce il gioco di potere di Kevin sulla donna: il bimbo sa di avere un'arma e sa che lei ne è consapevole), Totem (Kevin, sorpreso ad ammirare la gigantografia di Eva esposta nella vetrina della libreria, darà voce, a suo modo, al suo protagonismo) e Rifugio (la prostrazione della malattia abbassa le difese del bimbo e smaterializza il suo copione quotidiano, scoprendolo per quel che è: attaccato alla madre, insofferente verso la sollecitudine entusiasta e asfissiante del padre) e un figlio che se ne fa specchio deformato (il volto di Eva e Kevin si confondono nell'acqua) e che più che per vendicarsi di lei lasciandola viva e sola in un deserto, sembra distruggere ogni ostacolo (casa, padre, sorellina, passato materno - remoto e prossimo -) per un reset mostruoso che gli consenta, infine, di amarla ed esserne amato. Nel dolore, ma liberamente.
Magnifico raccontare per immagini: quasi un’opera sperimentale, dove si confondono ricordi, allucinazioni e presente, dove il rosso del sangue invade la scena nei sogni (bellissimo quello in apertura, che sfrutta La Tomatina spagnola, con Eva fra giovani ammassati e ricoperti di pomodoro) e ritorna continuamente in scenografie e giochi di rifrazione solare, mentre è il giallo il colore dominante dei flashback “felici” della famiglia (nella scena del concepimento, il rosso invade il giallo). Lynne Ramsay rifugge una drammaturgia piana e lineare, inventa in continuazione punti di inquadratura, si sofferma sui dettagli, sposa persino il registro grottesco (la festa aziendale) pur di mantenere la pellicola in zona Carrie – Lo Sguardo di Satana. Certi frammenti che s’intromettono nel montaggio suggeriscono senza dire (poi sarà mostrato anche l’ovvio, vedi la strage), tutto è evocativo, giocato sul contrasto passato-presente, con il primo innervato delle inquietudini di Rosemary's Baby e il secondo incubale per una madre che accetta supinamente le rimostranze delle vittime arrabbiate, preferisce nascondersi e, intanto, ripensa alla propria vita con Kevin. Come nel romanzo “Dobbiamo palare di Kevin” di Lionel Shriver (2003), il seme del male si rinviene nella scena in cui la neo-mamma, esasperata, vomita la sua disaffezione al figlio: Ramsay, però, preferisce sfumare, suggerisce che tale seme è anche innato e gioca d’ambiguità alla Ratcatcher quando scopre in Kevin anche moti di tenerezza (quando si ammala o nel finale). Unico grosso neo dell’operazione: descrivere Kevin affidandosi al “genere”, a La Maledizione di Damien, alle decine di thriller con bambino demoniaco, con l’altro topos della madre che è l’unica ad accorgersene. Da autorale, sfumato e aperto a più interpretazioni, il film rientra in una produzione più corriva, disattendendo la potenza evocativa delle immagini con senso più ampio, nel momento in cui sposa questa figura sicura di sé, superiore, sovrumana.