TRAMA
Libano, un piccolo villaggio. Mentre nello Stato riesplode il conflitto tra cristiani e musulmani, qui le donne tentano di mantenere la fragile convivenza degli abitanti.
RECENSIONI
Il piccolo villaggio come utopia, ovvero “non luogo” in quanto escluso dal resto del Paese; cristiani e musulmani che vivono in integrazione all’ombra di una guerra passata, non specificata ma solo ricordata e stratificata nella memoria; le donne quali colombe di pace, custodi dell’equilibrio del microsistema di fronte al macrocosmo della Guerra. Il secondo lungometraggio della libanese Labaki - come si vede – si fregia subito di una forte inclinazione metaforica, costruita sul significato dei suoi simboli: il ponte al centro del paese, incarnazione della convivenza cristiani/musulmani (quasi una “mano tesa”, anche visivamente), verrà attraversato da una sequenza di morte proprio allo scoppiare del focolaio. Lo spazio della pellicola è nettamente diviso in due sezioni, dentro e fuori: dentro si consuma l’unione, rappresentata da facce e corpi in carne e ossa, le loro relazioni quotidiane, il rapporto fra uomini e donne, insomma l’impresa di conservare intatto questo avamposto di pace; fuori risuona il conflitto, tenuto a debita distanza, insinuato dai feticci della comunicazione, che si affaccia minacciosamente da televisioni e giornali. Nel frattempo le donne si recano in gruppo nei cimiteri contrapposti, dividendosi solo agli ultimi passi; fanno, letteralmente, la strada insieme per suggerire l’uguaglianza ideale tra diverse religioni fino al paradossale gesto estremo (un altro simbolo), lo “scambio” di persona tra cristiane e musulmane.
La regista opera alcune scelte solide, come nel precedente Caramel, modulate soprattutto sui toni della commedia; la scena delle donne che interrompono il notiziario, per esempio, propone un'idea universale di opposizione alla guerra, che potrebbe applicarsi in qualunque tempo e luogo. L'intreccio sembra a suo agio con le armi dell'ironia, fatta anche di stereotipi, tra belle donne, bevute e stupefacenti, feste estenuanti che mitigano i conflitti (c'è l'ombra di Kusturica), malgrado alcune curve di pesante scontatezza (le battute fisiche sulle ragazze ucraine); in più è discretamente elegante la scelta narrativa di lasciare la morte fuori campo, non vediamo mai un colpo di pistola. Ma la storia, quando si avventa nel territorio difficile del 'discorso serio', barcolla vistosamente: sulla carta vorrebbe riflettere con leggerezza sulla situazione libanese, lanciando una speranza per il domani, di fatto la evoca sonoramente e sottovaluta il ruolo dello spettatore (la scenata di Amale che spiega le ragioni del film). La regia al servizio del racconto cerca la semplicità, a tratti la trova, a tratti indugia troppo sui volti piangenti, compreso quello della Vergine in un simbolismo greve e fuori luogo.
Molto celebrato (nella sezione Un certain regard a Cannes, premio del pubblico a Toronto), E ora dove andiamo? è figlio di un'impostazione narrativa evidente e orgogliosa, lecitamente antimilitare e femminista, un'idea che ha qualcosa da dire e lo fa senza fronzoli: il 'messaggio' è lanciato direttamente nei confronti del pubblico. Allora si ripropone l'annoso dilemma che investe questo tipo di film: chi apprezza la qualità della lezione civile, inevitabilmente esplicita, sarà accontentato; chi chiede attenzione al racconto e un'idea (qualunque idea) nella costruzione dell'immagine resterà deluso, perché questi si limitano a una catena di fatti e situazioni secondo una malintesa idea di riproposizione, la ripetizione letterale di spunti già visti e consumati. Risplende la protagonista, la stessa Nadine Labaki.