TRAMA
RECENSIONI
Sopra. Sotto. Profilo sinistro. Profilo destro. L’insieme. Due o tre cose che so di lei è il film dell’insieme: abolizione deliberata dell’analisi razionale e aggregato fluido di intarsi sentimentali (e qui “sentimento” è da considerarsi come facoltà del sentire, comprendere, integrare). Ritratto organico di una donna (e di una città) infelice che si prostituisce per adeguarsi ai falsi bisogni imposti della società dei consumi, Deux ou trois choses que je sais d’elle è il comple(ta)mento di Vivre sa vie. Anche in questo caso il film nasce dalla libera interpretazione di un’inchiesta giornalistica sulla prostituzione (pubblicata da Catherine Vimenet su «Le Nouvel Observateur»). Quello che cambia è l’approccio al problema: non più rigidamente sociologico-linguistico, ma più duttilmente fenomenologico-esistenzialista (Godard cita il concetto di esistenza singolare di Merleau-Ponty). Totalmente ignara del significato sociale della prostituzione, in Vivre sa vie Nanà (Anna Karina) vive la propria vita in piena coscienza, consapevole dei propri desideri e della ricerca soggettiva della felicità. Dal punto di vista esistenziale, Nanà è libera e responsabile: sceglie di essere quello che è (“Penso che siamo sempre responsabili di ciò che facciamo. E liberi. Alzo la mano, sono responsabile. Giro la testa a destra, sono responsabile. Sono infelice, sono responsabile” dice all’amica Yvette in un bar di periferia). Socialmente però è ingenua, incosciente, di una sprovvedutezza che finirà per costarle addirittura la vita. Per bilanciare la riflessione filmica e conferirle unitarietà, in Vivre sa vie Godard si preoccupa di ricreare l’equilibrio delle parti, impaginando la jouissance e la mélancolie di Nanà in una struttura argomentativa rigorosa, quasi aritmetica (12 episodi in 12 capitoli). In Due o tre cose che so di lei la situazione è capovolta: completamente padrona del significato sociale dei suoi atti, Juliette (Marina Vlady) gestisce il commercio di sé con una sicurezza impressionante, mostrando di sapere perfettamente quello che può accettare e quello che deve rifiutare. Ma le azioni che compie sono scisse dal nucleo del suo essere: i suoi desideri provengono da un luogo recondito risultandole profondamente inesplicabili, i suoi sogni le danno l’impressione di andare in frantumi e i suoi risvegli le procurano il terrore che le manchino dei pezzi. Detto altrimenti, Juliette sa quello che vuole, ma non sa perché. Per rappresentare la sua condizione occorre ovviamente un’impostazione diversa: Godard rimpiazza l’ossatura forte di Vivre sa vie con un approccio più aperto, morbido, “prensile”, ricostruendo per via d’immaginazione quella globalità esistenziale, quel “senso della situazione” che Juliette fatica ad afferrare. Pur simulando un impianto analitico frontale (le didascalie ironicamente libresche, il titolo programmatico “ELLE: LA RÉGION PARISIENNE”), Due o tre cose che so di lei disegna un insieme compositivo plastico, dinamico, un organismo vibrante in cui esseri e cose possano vivere in accordo “simpatico” tra di loro. Un processo filmico palpitante, in grado di portare Juliette (e con lei lo spettatore) a “sostituire uno sforzo d’immaginazione all’esame di oggetti reali”. Oltre a imbastire un montaggio di squillante musicalità, sibilare una voce over di mormorata inesorabilità e orchestrare un ritmo fluidamente paratattico, in Deux ou trois choses que je sais d’elle Godard magnifica gloriosamente la figura della panoramica circolare, elevandola a forma espressiva suprema, struggente abbraccio visivo e implacabile giro d’orizzonte sugli uomini e le cose. Per ripartire da zero, finalmente in armonia: “Le paysage c’est pareil qu’un visage”.
