TRAMA
Due cuccioli di tigre vengono separati e allevati in cattività solo per essere riuniti anni dopo come nemici da un esploratore che vuole farli combattere l’uno contro l’altro.
RECENSIONI
A chi è rivolto un film del genere?
Per i bambini è più divertente, e sicuramente più istruttivo, un documentario del National Geographic, i teen-ager rischiano di addormentarsi sui popcorn e per gli adulti è impossibile non provare un profondo sconforto nel constatare la nullità del progetto, totalmente anacronistico e privo di identità. La storiella servirebbe a malapena per riempire la puntata di un qualsiasi Tarzan televisivo e basta la sequenza di apertura per capire le intenzioni del regista, il discontinuo Jean Jacques Annaud, colpevole (insieme a Alain Godard) anche della ridicola sceneggiatura: due tigri giocano fra loro e quando amoreggiano la copula è inframmezzata dallo sguardo curioso e ammiccante di una buffa scimmietta (tanto per far sprecare al pubblico la prima risatina scema). Si passa poi alla nascita di due cuccioli che, ovviamente, il destino separerà, fino a farli incontrare/scontrare nell'assurdo finale (neanche fossero gli unici due esemplari rimasti della specie). In mezzo ai due prevedibili eventi alcune chicche di vuoto: il cacciatore, cinico affarista dal cuore solo impolverato che ascolta il grammofono nella giungla ed è pronto a perdere lavoro e dignità pur di salvare una tigre dalla morte (è come se un macellaio diventasse vegetariano dopo avere visto un vitellino), il governatore francese che, sarà il doppiaggio, possiede solo la vocale "A" (il tAmpio, l'esAmpio, il momAnto e così via, in una sequela a dir poco irritante), un circo dal nome "Zerbino" (sic) pieno di cattivi sfruttatori che, guarda caso, faranno una brutta fine, la ragazza del villaggio, che vive in catapecchie ma è bellissima e poliglotta (lei sembra reduce da una sfilata di moda, suo padre da una recita scolastica), e l'immancabile bambinello ispirato dalla bontà capace, a forza di pistolotti edificanti, di rendere inappetente anche la tigre più affamata. C'è poco altro da aggiungere, se non che lo stile coloniale della messa in scena gronda luoghi comuni e approssimazioni, i dialoghi sono pessimi e gli attori, o gigioneggiano (Jean-Claude Dreyfus) o vagano in stato di veglia (Guy Pearce). Continua a suscitare perplessità l'antropomorfizzazione degli animali, neanche fossimo in un cartone animato: hanno emozioni, buoni sentimenti e razionalità (fame e aggressività divengono dettagli irrilevanti), il flashback li aiuta molto a dare ordine ai ricordi e adorano il melodramma. L'unico punto a favore del film è nella bellezza dei felini protagonisti e nell'abilità del loro ammaestratore, tanto che le tigri risultano molto più espressive del lato umano della vicenda. Ma perché appiccicare alla natura una storia così pasticciata e inutile?
Annaud torna sulle orme de L’Orso (che aprì le danze dei film “animalier” francesi), ma cambia completamente i modi: niente è finto, se non il cinema che affabula la drammaturgia delle immagini, alla Carroll Ballard. Là la favola animalista ricostruiva in studio anche i paesaggi; qui si limita all’antropomorfismo (invero con pose ed espressioni anche esagerate), preoccupandosi di più di costruire un racconto drammatico dove alle due protagoniste ne capitano di tutti i colori, ai limiti dell’assurdo. In realtà, attraverso i fratelli Kumal e Sangha, Annaud ha voluto rappresentare tutte le angherie subite da queste tigri da parte degli umani: chiamate “mangiauomini” quando sono gli uomini a istigarle, torturate (altro che domate!), per il circo, strappate alla madre in tenera età, uccise per le pelli, ingabbiate per collezioni private, catturate come animali da compagnia per i propri figli, salvo cacciarle come sport una volta cresciute. Il regista è abile nel mettere in campo, nella superficialità da favola dei toni, le contraddizioni umane; quel che non funziona non sono tanto la leziosità (ce ne fossero a centinaia di opere così, che insegnano a familiarizzare con gli animali selvatici) o gli artifizi (le soggettive delle tigri, qualche coda finta…) per drammatizzare il “documentario”, quanto le spolverate da commedia che, da una parte stonano con il melodramma tragico e la rabbia che cresce dentro lo spettatore verso gli umani (sono loro i “commedianti” e, ovviamente, non fanno ridere), dall’altra con le mire “etiche/edificanti” della pellicola. Poco importa, si entra in empatia da subito con i felini, si patisce con e per loro e “l’abbraccio” finale nell’arena tocca il cuore, oltre che essere una geniale lezione di vita per i veri mostri, gli spettatori.