Animazione, Avventura, Commedia, DISNEY+, Recensione, Serie

DUCKTALES

Titolo OriginaleDUCKTALES
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2017
Durata3 stagioni, 54 episodi
Sceneggiatura

TRAMA

I paperi più amati di sempre tornano in una veste nuova, più avventurosi e divertenti che mai.

RECENSIONI

Uguali, ma diversi

“-Non voglio essere il fifone del Maiverest per altri 75 anni!

-La parola fifone non la usa neanche più nessuno!”

Duck Tales 2017, L’Impossibile vetta del Monte Maiverest

 

Nulla come la nostalgia fa rimpiangere cose imperfette e difettose per il non-semplice fatto che sono andate perdute e non c’è all’attivo un rimpiazzo sufficiente a colmare il vuoto lasciato: i famosi anni 80 hanno da tempo superato lo status di revival per installarsi nella continuatività di una memoria mitica, da cui potrebbe sorgere il sospetto che, accanto all’emulazione dell’edonismo irresponsabile che fu, vi sia un bagaglio di irrisolto pienamente ereditato che fa convivere il senso di colpa col desiderio di spensieratezza. E forse è proprio quello il nostro mondo perduto: il gusto di godere del miracolo della plastica senza cognizione di causa, di abusare di cose terribili come la lacca e buttare l’ennesima bomboletta nell’indifferenziato, di immaginare ordigni da un capo all’altro del mondo e, finché c’è tempo, affrettarsi verso la discoteca, “hoping for the best, but expecting the worst” sintetizzavano –in tutti i sensi- gli Alphaville, “sperando nel meglio e aspettandosi il peggio”, che a confronto col diktat contemporaneo del fare il meglio con bassissime aspettative è praticamente adrenalina. E questa adrenalina nostalgica che aumenta le pulsazioni da fermi è l’ideale per il piccolo schermo, per le emozioni fruite nell’inazione che incolla all’immagine cinetica per molte ore, spesso solitarie.
A trent’anni di distanza (1987 la serie originale, 2017 il reboot), torna Duck Tales, i paperi animati che Disney lanciò per la tv e che, dopo l’approdo in
pay per view (Disney Channel e XD) sono ora parte dello streaming di Disney+: ovvero, muovendosi su una sola piattaforma, si può cliccare sui nuovi episodi così come sui vecchi. Praticamente un viaggio nel tempo a portata di mouse / touchpad. E di nuovo la Disney, sul piano della fruizione, divide i fan tra delusi e entusiasti e, su quello sociale e social, torna al centro di un dibattito che lascia il tempo che trova: lo trova ogni volta che il suo atteggiamento culturale viene aggiornato e seguono acclamazioni o accuse di ruffianeria, lo lascia ogni volta che il colosso tace o liquida la discussione dall’alto di un potere di mercato ormai gigantesco (che pure, però, con la chiusura dei parchi a tema e il calo del merchandise, ha visto Netflix sfrecciare avanti e trionfare in quarantena). In tempi di proteste antirazziste e di lotte a colpi di disclaimer sì/disclaimer no, ricordiamo, che appena un anno fa, la polemica sull’opportunità di un messaggio informativo in apertura del film a sottolineare la presenza di contenuti culturali obsoleti si era già consumata proprio con Disney, dopo essere stata presentata come la censura dei grandi classici, e ne era seguita la questione, piuttosto triste, della “Sirenetta nera”. Non è un mistero per nessuno come gran parte del perbenismo anglosassone emani da scelte mai sovversive, ma sempre opportune e accomodanti, anche quando sollevano un po’ di polvere di post facebookiani, posata la quale non resta che guardare e riguardare il film in questione, come si è sempre fatto con i classici Disney. E non dovrebbe stupire il fatto che una major così popolare non possa e non debba far altro che stare al passo coi tempi nel più sensato dei modi, conservando, aggiornandola ma non troppo, l’esemplarità della sua morale che ha fatto dell’aggettivo “disneyano” qualcosa che, nei nostri dizionari, va dal sinonimo di fantasioso e irreale al “fastidiosamente ingenuo”. In tutto questo, che fine hanno fatto i paperi -fortunati, sfortunati, saggi e miliardari- che popolano la città di Duckburg, Paperopoli, capitale dell’immaginario Stato del Calisota?
Sono proprio come li ricordiamo. O quasi. Dalla linea più stilizzata, le tinte smorzate in un pastello a dominante bianco piuma a contrasto con il nero che sostituisce il blu nell’abito iconico con ghette e tuba di zio Paperone e nella casacca alla marinara di Paperino; non mancano i nipotini, la numero 1, il deposito; si sente invece la mancanza del maggiordomo… ma ogni pezzo è al proprio posto. Eppure, tutto è cambiato.
Per lo spettatore italiano, il primo scoglio è il doppiaggio. Perché, se per quanto riguarda la live-action nel pubblico esiste ancora la storica dicotomia fra i sostenitori dell’autenticità della lingua originale e quelli del diritto di vedere un film invece di leggerlo, per l’animazione, escludendo casi particolari, come Wes Anderson e il suo cast vocale d’eccezione, e considerando soprattutto i grandi classici, esiste perfino un affetto verso le voci che hanno accompagnato un tempo in cui i dialoghi dei film si imparavano a memoria, abitudine andata perduta ora che le visioni si consumano, in gran numero e in fretta, raramente si replicano e la riproposizione di frasari avviene per lo più attraverso i meme. 
Ebbene, come rinunciare a quell’afonia alternata a un lieve graffiato e al falsetto di zio Paperone, allo sciocco birignao di Jet, alle vocette bambinesche di Qui, Quo e Qua, all’eccessiva vezzosità di Gaia, a quel sentore partenopeo di Amelia, senza disconoscere gli stessi personaggi? Semplicemente, sapendo e accettando il fatto che il mondo cambia e che spesso è solo questione di abitudine e che lo stesso Carl Barks, che ridefinì la figura di Paperino e arricchì l’universo dei paperi, non li vedeva come figure immobili nel tempo, ma li immaginava crescere, perfino invecchiare. Non siamo arrivati a tanto: sono solo un po’ cambiati. Paperino è sempre incomprensibile, indolente e sfortunato, ma più protettivo, più sensibile; i nipotini, prima compatto trio di giovani marmotte, hanno ora tre caratteri e caratterini ben distinti, Gaia è una survivalista che chiaramente porta fuori dal guscio la “femminuccia” in rosa e la emancipa, il buon Jet è di una stupidità da manuale, Archimede è un nerd altezzoso; Paperone è la saldatura del conflitto generazionale: determinato a non perdere il proprio smalto, sostenitore agguerrito del proprio tempo, custodisce il Novecento tanto quanto il proprio patrimonio, ma è disposto a scendere a compromessi, ad ammettere gli errori, a passare il testimone quando necessario. Lo spirito arcano di Amelia aleggia attraverso un’ambigua nipote infiltrata, i Bassotti si sono moltiplicati, Cuordipietra Famedoro è diventato tutto scemo: gli antagonisti si prestano a nuove gag e sorprese. Fra di loro, la novità Mark Becchis, un miliardario che è diventato tale con trucchetti di marketing, invenzioni opinabili e postando ogni istante della propria vita online, ovviamente. Ora come allora, la leggerezza delle vicende narrate, così irreali, iperboliche, col deus ex machina pronto a scattare nel peggiore dei momenti, ha la freschezza delle pagine di un fumetto appena comprato e letto. Quella verve avventurosa che ammette spiriti e incantesimi nella sua quotidianità è, pur aggiornata, sempre riconoscibile. 

E tutti i personaggi, ottimamente interpretati dal nuovo cast italiano al quale bisogna pur concedere del tempo, risultano dopo un po’, familiari, autentici, riconoscibili. Tanto che, a rivedere vecchi episodi di fine anni 80 dopo aver preso confidenza con i nuovi, se ne avverte tutta la distanza temporale, l’ingenuità, la differenza di valori a partire dal mettere in scena la gioia tronfia dei miliardi di un papero che oggi avrebbe l’aria di un certo
tycoon. E, soprattutto, ci si chiede: perché un ragazzino di oggi non dovrebbe avere i suoi Duck Tales? Perché, dopotutto, dal 1934 in cui fu messo in scena il primo papero, quel Donald Fontelroy Duck, per noi Paolino Paperino, che aveva ancora il becco lungo lungo e un po’ sgraziato, di tempo ne è trascorso, e arricchendosi nel tempo di personaggi sempre nuovi, un’intera genealogia di anatidi è arrivata fino a noi attraversando un bel po’ di storia, e i suoi membri sono stati variamente razzisti, sessisti, patriarcali, guerrafondai. E chissà cosa saranno in futuro, quando la spiazzante contemporaneità del reboot attuale vivrà forse una nuova obsolescenza. La fitta galleria di personaggi del panorama disneyano è, nel bene e nel male, una piccola storia d’America, con tutte le contraddizioni del caso. E se la nazione è, sotto molti aspetti, al tracollo, non lo è la sua narrazione. Ma accanto al proverbiale spettacolo che deve continuare, ora sorge una nuova emergenza che chiede di interromperlo: “the show must be paused” (recita uno slogan, un hashtag, un movimento). E lo chiede nel tempo in cui, cosa che nessuno avrebbe potuto immaginare, è stata la vita reale a fermarsi; mentre il flusso di informazioni, di immagini e di racconti immessi sul web si moltiplicava. E lo streaming si confermava, a sale chiuse, fenomeno di punta dell’attualità spettatoriale e produttiva. In forma di salvezza, necessità, dipendenza, risorsa, immobilismo, evasione. E poi chissà. 

Diversi ma uguali

Tocca farlo di nuovo.
Che cosa? In Disney reinventare la cara vecchia Paperopoli e i suoi abitanti, su Spietati chiamare ancora una volta in causa la sempre cara ma meno vecchia Alice burtoniana... ​quella Alice, sulla cui identità e veridicità tutti si interrogano, così simile all’Alice classica, eppure - come recita la sua interprete Mia Wasikowska - per alcuni l’Alice ​sbagliata​, forse perchè cresciuta, o semplicemente aggiornata; fatto sta che ha ridefinito la Hollywood (e la televisione di rimando) dell’ultimo decennio. Dieci anni fa ​Avatar e il “​king of the world” ​James Cameron si apprestavano a cambiare il mondo del cinema e la sua fruizione, con un ​franchise originale, non basato su alcuna ​intellectual property (IP) esistente, una CGI dal fotorealismo estremo eppure fuori dal (nostro) mondo, una ​motion capture ​avveniristica e un 3D stereoscopico immersivo. Nonostante l’incredibile accoglienza e gli incassi record, Avatar fallì nel suo principale intento: imporsi come ​il film di riferimento degli anni a venire, il modello a cui tendere per ottenere successo, traguardo invece tagliato qualche mese dopo da un film molto meno ambizioso, a suo tempo quasi sperimentale, che invece di girare in 3D preferì la facile strada della conversione in post-produzione: l’A​lice in Wonderland ​di Tim Burton, capostipite del filone del ​remake-reboot che ha dominato, insieme ai supereroi, il panorama cinematografico moderno, e si è disvelato completamente, con i suoi pro e contro, nell’ultima trilogia di ​Star Wars​. Tale modus operandi,​ che riflette l’insicurezza di un decennio in bilico tra un sentimento di autentica nostalgia, mancanza di idee, desiderio di innovazione e bramosia di facili guadagni, ha investito anche il piccolo schermo, in tutte le sue piattaforme e il nuovo ​Duck Tales (2017)​ ne è figlio legittimissimo.

Tutto è ​diverso ma uguale​, a partire dalla sigla, ​paperosa come tradizione comanda, dai testi identici ma cantata da voce femminile, che include tutti i personaggi e definisce subito il tono avventuroso della serie, proprio come in quella degli anni ‘80, allontanandosene graficamente ma omaggiando la sua matrice fumettistica sia nell’impostazione che negli innumerevoli ​easter eggs che citano direttamente i ​comics e i quadri del papà di tutti i paperi, ​Carl Barks​. Ciò che colpisce immediatamente è il cambio di ​design​, ora spigoloso, e minimale, dai becchi squadrati e le zampe allungate, lontano dalle rotondità classiche, più simile nell’approccio a quello dei nuovi ​shorts di Topolino & co. - a loro volta influenzati da anni di animazione televisiva stilizzata, ammiccante, spesso sfrontata - che hanno ridefinito completamente per forme e linguaggio personaggi amatissimi, da sempre in continua evoluzione e ​restyling​, riflesso del tempo e della maestria degli artisti dietro le matite. In ​Ducktales (2017) ​ci si muove in una ​continuity parallela, scelta di tradizione marvelliana, che permette alla nuova generazione di sceneggiatori di avere carta bianca nel ridefinire completamente un universo la cui eredità, ricordiamo, è stata tenuta in vita dai grandi fumettisti italiani dell’Accademia Disney, che con “Topolino” hanno per anni riadattato ai nostri tempi, gusti e tendenze, questi personaggi immortali.

Il nuovo Paperon de Paperoni si mostra identico nel costume, tuba, bastone e ghette incluse, ma rinnega la sua classica natura di spilorcio interessato solo al guadagno, per votarsi decisamente all’avventura e alla sua famiglia, più attento alle spese che avaro ma sempre amante del suo oro. Paperino, ovviamente in completo alla marinara, si mostra più coraggioso e responsabile e addirittura iperprotettivo nei confronti dei nipoti ma ancora accompagnato dalla malasorte e dalla sua irascibilità. I gemelli Qui, Quo e Qua (già reinventati in veste teenagers nella serie anni ‘90 ​Quack Pack​) mantengono i loro colori, ma sviluppano personalità proprie e distin(tiv)e e raramente li vediamo in azione tutti insieme: Qui, l’unico che conserva l’iconico berretto e che fa parte delle giovani marmotte, condivide lo spirito avventuriero dello zione, e si mostra sempre logico e organizzato, a tratti saccente, mentre Quo (ciuffo all’insù) è il più sensibile del gruppo, curioso, intende scoprire i misteri della propria famiglia. Qua (ciuffo all’ingiù) pigro e scansafatiche come il Paperino dei fumetti, sa cavarsela senza mai sforzarsi troppo, spesso sarcastico quanto basta. Jet McQuack diventa sempre più ingenuamente ottuso ma ancor più adorabile, una sorta di novello Kronk de Le Follie dell’Imperatore​, mentre Gaia, la nipotina onoraria del gruppo, subisce il ​makeover più sorprendente: via la bambola che si portava sempre dietro nella serie originale (infilzata da una freccia a una parete in un geniale ​easter egg​), diventa una paperotta sveglia, atletica e iperattiva anche se alquanto disadattata, dato che ha da sempre vissuto in villa de Paperoni insieme alla ora nerboruta nonna, Tata. Ci si ferma qui anche se l’elenco sarebbe lungo; basti dire che i fan non resteranno delusi: la famiglia è al completo, ​villain​ compresi.

Cuore di questa ​disfunctional family e​ ​leitmotiv della serie è Della Duck, madre dei tre gemelli e un tempo compagna di avventure di suo fratello Paperino e di zio Paperone. Il mistero della sua scomparsa accompagna e lega diversi episodi e modella una dimensione sentimentale assente in passato, che insieme a un’attenzione ad una morale più arguta e sottile - in una operazione molto simile a quella effettuata dalla Disney ne Il Ritorno di Mary Poppins - e a un occhio critico verso i cambiamenti della società e della tecnologia moderna, svecchiano la serie rendendola un prodotto maturo, ludico e istruttivo, specchio riflesso di quel pubblico contemporaneo a cui si rivolge. Evidente modello è quel gioiello di ​Gravity Falls​, serie del 2012 che ha debuttato, come il nuovo ​Ducktales​, sul canale Disney XD per poi approdare anch’essa su Disney+. La costruzione è molto simile, avvolta attorno a un mistero che cela molti segreti familiari, tra avventure, umorismo, e un pizzico di ​politically uncorrect​, così dannatamente necessario in Disney per un'infinita serie di ragioni, mutuato dai grandi pilastri dell’animazione televisiva moderna de ​I Simpsons ​e ​I Griffin​, guarda caso ora facenti parte, dopo l'acquisizione della Fox, di una famiglia ancora più grande, quella disneyana, appunto. Quell’​Ohana ​che molti ricorderanno in ​Lilo & Stitch​, famiglia appunto, è proprio il fondamento ultimo su cui la Disney ha basato il suo ​core ​business​, sempre attenta a riflettere (su)i tempi e a includere tutte le incarnazioni e definizioni possibili di famiglia, spesso strampalata e/o senza barriere di razza e sessualità, ben lontana da quella tradizionale dipinta da una certa politica nostrana. Dalla morte del suo fondatore, grande responsabilità e impegno è stato profuso dai suoi eredi (in senso lato) nel preservare le sue ambizioni e il suo spirito - conservati scrupolosamente negli archivi dei Walt Disney Animation Studios e nel Walt Disney Family Museum - ben consapevoli che a dover esser preservata è prima di tutto la ​Disney Company family​, quella che vanta una tradizione così radicata nel nostro immaginario da aver contribuito a definire la modernità americana e occidentale perché ha agito su ciò che ​in primis d​efinisce le nostre persone: i propri sogni d’infanzia. Questa famiglia, unica tra le major a vantare un vero e proprio ​fanbase dedicato, spesso tossico, vanta un ​corpus di personaggi e una ​library sterminati, concepiti, acquistati, nell’arco di decenni, invidiati da chiunque sul mercato, e per ora inarrivabili, sia banalmente in termini quantitativi che di qualità di sfruttamento e popolarità; per quanti contenuti Amazon e Netflix possano aggiungere alle proprie piattaforme non potranno mai eguagliare quelli aggregati di Disney, Pixar, Marvel, Lucas e Fox, anche perchè, ricordiamo, nonostante la loro aggressiva politica di produzione di ​content originali, molti dei loro show sono in ​licensing.​ Insomma, che si tratti di una maglietta con le orecchie da topo o di uno squisito lungometraggio animato, al cinema o in tv, il vero ​plus su cui contare e investire è sé stessi, la propria storia e il proprio ​brand,​ unico e inimitabile; e questo la Disney, astutamente, lo sa bene... ​per mille gonnellini scozzesi​!