TRAMA
RECENSIONI
Dopo le opere “commerciali” degli esordi, nei quattro lungometraggi completati a partire dal crossover Antonioni-Ozu Happy Hour (2015) Ryusuke Hamaguchi ha chiarito ormai cosa intende farsene del cinema. Per lui, il cinema è un moltiplicatore della letteratura; qualcosa, cioè, che serve a portare a piena visualizzazione le strutture implicite del testo letterario – le quali peraltro vanno lasciate il più possibile così come sono, integrandole semmai con sostegni e rinforzi (nel senso letteralmente “edile” del termine) qualora l’impalcatura li necessiti per poter stare in piedi su uno schermo. Quello che conta, in ogni caso, è la tenuta il più solida possibile, e fedele, della costruzione letteraria, la cui resa visuale è il fine ultimo dei suoi film.
Per il resto, Hamaguchi si attiene sanamente alla linea old school del cinema letterario: minimizzare il dramma, massimizzare le relazioni tra i personaggi. In questo adattamento (gonfiato) della short story di Haruki Murakami Drive My Car, le sfighe che in neanche mezz’ora si abbattono una dopo l’altra su Yusuke, attore e regista teatrale la cui moglie muore in un incidente poco dopo la sua scoperta dei tradimenti di lei, vengono liquidate con assoluto aplomb. Nel resto del film, Hamaguchi cancella ogni traccia di appariscenza nella propria regia per far guadagnare in efficacia i pochi colpetti di acceleratore piazzati nei punti giusti della scena (con un cambio di angolazione, uno scarto tonale etc.), e così facendo erige mattone dopo mattone, con calma, precisione ed eleganza allucinanti, una struttura che porta a delucidare secondo un calcolatissimo crescendo le relazioni tra tutti i personaggi, fino al momento in cui ognuno di essi, a modo proprio, può sporgersi sul buco nero che li accomuna tutti: l’elaborazione del lutto.
Detta così, la struttura pazientemente imbastita da Hamaguchi può dare una certa impressione di asfissia – e questo oltre a essere normale è anche giusto, poiché lo stesso Yusuke è una creatura che si è volontariamente murata viva dentro la letteratura, dentro il teatro, dentro i suoi dischi, e financo dentro la sua Saab 900 rossa di irriducibile hipsteraggine. Ecco dunque lo Zio Vanja: la vita che non vive, e che proietta l’ombra di una vita vissuta in un improbabile doppione antagonista, il quale in questo caso è niente meno che il giovane bellimbusto trovato a letto con la moglie e che Yusuke si troverà davanti a Hiroshima, quando nell’ambito di una residenza di artista lavorerà alla messa in scena del capolavoro di Cechov insieme a un cast internazionale di cui fa parte anche costui.
Non è, tuttavia, la rivalità maschile ad occupare il centro del film. Oltre a rinchiudersi dentro i suoi artefatti, Yusuke da buon ossessivo si autoreclude in una serie di rituali privati; uno di essi è l’ascolto compulsivo, al volante della sua Saab 900, della registrazione che gli serve per provare le battute dello spettacolo. A Hiroshima, tuttavia, l’amministrazione della residenza gli fornisce di default un’autista. I rituali non sono più possibili e il suo piccolo mondo è all’improvviso a rischio di crollo. Ecco dunque che la fantasia erotica che la moglie nelle prime scene racconta al marito per poterla poi proporre in forma di show alla televisione per cui lavora si rovescia esattamente di 180 gradi (nessun “mattone” occupa un posto casuale nella struttura), e diventa una situazione per Yusuke possibilmente da incubo, poiché adombra che un altro (nella fattispecie: la ragazza alla guida) si installi proprio nel punto da cui, grazie ai propri rituali quotidiani, Yusuke rinnova ossessivamente l’illusione di detenere il controllo. Se dunque la struttura del film è talmente fitta da imprigionare Yusuke (in un modo o nell’altro tutti i personaggi sono la proiezione invertita di qualche suo tratto), d’altra parte lo spettatore, quando questa autista entra in scena diventando l’autentico personaggio-chiave di Drive My Car, si trova a chiedersi se la scorza in cui Yusuke si è autorinchiuso finirà per infrangersi ora che un corpo estraneo sembra fare irruzione dall’esterno.
In realtà lo spettatore, davanti a un film così strenuamente “perfettino”, capisce anche ben presto che no, nessuna scorza si romperà. La piena, catartica presa di coscienza del proprio trauma, che passa anche per i traumi altrui, serve solo affinché alla fine Yusuke riesca a interpretare Vanja con più vigore di prima – ma nessuna palingenesi lo aspetta e lui rimane dunque confinato nella rappresentazione. Al di fuori di essa, la sua vita rimane uguale.
E non potrebbe essere altrimenti: Hamaguchi è troppo innamorato della coerenza della forma che costruisce, in ogni sua componente e in ogni suo snodo. Del binomio freudiano lutto/melanconia, Hamaguchi è dalla parte del lutto: la perdita può essere efficacemente esorcizzata attraverso la perfezione formale dell’oggetto che la sostituisce, e che costituisce una consolazione in sé.
Non si può, tuttavia, fare a meno di notare che quando il cinema ha incontrato la letteratura, gli esiti migliori sono stati sotto il segno della melanconia. Il melanconico non esorcizza il fantasma dell’oggetto perduto; anzi, è questo fantasma ad animarsi di una vita propria sulla scia della perpetua riproposizione della perdita, che il melanconico non cessa di reiterare. Con la melanconia, la morte viene non esorcizzata, ma riconfigurata in vita dell’inorganico – una vita che non può non essere avvicinata a quella, illusoria per definizione, che il cinema proietta su uno schermo, e che si pone di traverso rispetto alla forma, disgregandola. Lo sapeva bene Manoel De Oliveira, i cui film hanno molto insistito sulla vita autonoma del fantasma dell’oggetto perduto, e sui barocchi squilibri formali che ne risultavano. Del resto, il letterarissimo regista portoghese aveva una concezione del rapporto cinema-letteratura opposta a quella di Hamaguchi: non la riproduzione della struttura letteraria lo interessava, ma l’adesione “melanconica” alla “morta” parola scritta spinta fino a che quest’ultima (ri)prendesse vita grazie alla musicalità del suo proferimento. In Drive My Car non c’è il linguaggio che diventa musica ma, al contrario, ciò che sta al di fuori del linguaggio viene a propria volta riassorbito dal linguaggio: le battute chiave del testo di Cechov vengono espresse da una muta (sottotitolata) grazie al linguaggio gestuale dei non udenti.
Insomma: il partito preso ultraletterario di Hamaguchi si tiene, in modo un po’ passé, al di qua di ciò che numerosi esempi (un altro tra i tanti: Hong Sang-Soo) hanno mostrato essere la maniera più autenticamente cinematografica di portare la letteratura sullo schermo. Si tiene stretta la forma, trascurando il potere della ripetizione (melanconica), che eccede e sfigura la forma. Nulla di disonorevole, soprattutto visti i modesti tempi cinematografici che corrono. Ma neanche alcunché di miracoloso. Solo un bravo, bravissimo scrittore che sa come far brillare la forma della scrittura sullo schermo.