TRAMA
Due donne trascorrono un weekend sul mare del Nord. Una delle due tornerà presto dalla famiglia in Argentina, mentre l’altra cercherà di avvicinarsi all’Oceano. A bordo di una barca a vela, attraversa l’Atlantico. Il tempo abbandona i sentieri battuti e l’onda lunga la culla verso un sonno profondo. Il mare prende il controllo del racconto (dal sito della SIC).
RECENSIONI
L’esordio al lungometraggio della tedesca Helena Wittmann si dispiega in tre segmenti: l’incontro tra due donne, la parte girata nell’oceano, il breve reincontro. Nell’incipit le amiche dialogano fino ad affermare le rispettive intenzioni, l’una vuole tornare a casa mentre l’altra intende perdersi in mare. È nella ripresa dell’acqua, guardando a certo cinema sperimentale, che Drift trova la sua sostanza: la regista posiziona la cinepresa tra le onde e la lascia fluttuare, senza parole. Ci fa vedere l’orizzonte dal bordo dell’imbarcazione che va alla deriva consapevolmente, per scelta, ed è l’oceano a riempire lo sguardo: in questo gesto ipnotico prolungato, potenzialmente infinito, noi non più guardiamo ma siamo nel mare. Il movimento della barca è quello del nostro occhio, i due arrivano a coincidere: forse per questo la donna sparisce dall’immagine, toglie la presenza e ci lascia stare nell’acqua. Il mare assume lo statuto di personaggio e come tale è mutevole: le lunghe inquadrature sono tormentate o placide, la deriva è sofferta o riconciliata, a seconda delle riprese della regista. Che qui vi sia l'inizio o la fine, il sé o l'altro, è lasciato all'interpretazione o meglio alla sensazione. Resta soprattutto il movimento, l'ondulazione del personaggio/mare: il racconto diventa uno stato, il film una condizione. Nell’ultima parte le donne si incontrano ancora, dopo il viaggio, e l’una chiede all’altra: “Sei cambiata?”. Non c’è una risposta, solo l'esperienza ridotta a fotografia.
Un picco della Settimana Internazionale della Critica al Festival di Venezia 2017.
