TRAMA
A Downton Abbey arriva una lettera che mette tutti in subbuglio: il re e la regina si fermeranno per una notte nella dimora dei Crawley.
RECENSIONI
Dopo 6 stagioni, molti Emmy e molte celebrazioni popolari, il marchio Downton Abbey arriva anche sul grande schermo e l’operazione si rivela un successo. Ispiratore e sceneggiatore della saga inglese è Julian Fellowes, già autore di Gosford Park, che con la serie condivide l’aplomb, Maggie Smith, e il doppio sguardo sui piani alti ed i piani bassi di una dimora aristocratica. La saga della nobile famiglia Crawley e dei suoi domestici, ambientata nella campagna inglese tra il 1912 ed il 1925, dal 2011 intrattiene un numero crescente di nazioni. Per gli inglesi, ma anche per molti non inglesi, è una solenne celebrazione di classe British, per certi aspetti sempre valida, per altri lontana dalla modernità e quindi rimpianta, certamente colta nel suo lato più glamour. In Italia Downton Abbey ha conquistato un pubblico di nicchia, caldo ma numericamente limitato. Negli Usa, curiosamente, ha sfondato, come confermato dagli incassi della versione cinematografica. Considerando con obiettività il prodotto, si può ammettere che DA è divenuto un mito al di là dei suoi meriti oggettivi, un modello di stile col quale sognare, tra tolette elegantissime, riti di una volta, scorci di una magione nobiliare ormai iconica. Questo è divenuta la location Highclere Castle, meta di turismo massiccio (e non è certo l’unica o la più bella tra le residenze di campagna inglesi), fortuna dei suoi proprietari che ormai hanno organizzato un business invidiabile tra visite, alloggio, cene di Natale, tea room, shop tematico e merchandising. Grazie al potere di questa aura fascinosa, di buoni attori e (spesso) buone battute, la serie ha mietuto allori e si è negli anni arricchita di partecipazioni straordinarie: Shirley MacLaine, Lily James, Paul Giamatti, Matthew Goode, Iain Glen. Eppure la serie, inutile negarlo, già alla seconda stagione si telenovelizza notevolmente. Le schermaglie diventano topoi da soap opera, le disavventure si trasformano in iatture accanite. Non ci si fanno mancare nuovi partner ingombranti portati via da una malattia provvidenziale, che generano altrettanto provvidenziali sensi di colpa, eredità inattese quanto immeritate, ingiuste accuse di omicidio, scandali da soffocare, ricatti, figli illegittimi, amanti scomparsi dei quali viene svelata la tragica sorte, violenze sessuali, improvvise infermità ed improvvise guarigioni. Tanto che per uscire dall’empasse di una coppia sentimentalmente risolta (e dal problema di attori che lasciano il cast) occorre inventarsi una morte improvvisa ed operare un drammatico cambio di rotta. Emblematico anche l’esempio della coppia protagonista sul fronte dei domestici, che ha in sorte batoste inverosimili come diversivo prima e dopo le nozze – lo sventurato cameriere personale Bates e la sua povera consorte ne hanno passate di tutti i colori per diverse stagioni fino a trovare pace e relativa marginalità nella trama. DA, in ogni caso, non è nota o cara agli spettatori per le sue grandi storie d’amore, perché non è mai stato il suo forte crearle ed alimentarle. Piuttosto, sa raccontare bene lo spirito dei tempi ed il suo mutare. Questo è il vero fulcro delle vicende. Ci sono passaggi storici riconoscibili - si comincia con l’affondamento del Titanic, passando per la Prima Guerra Mondiale -, c’è l’evoluzione degli stili di vita e dei costumi, in tutti i sensi. Dai costumi sociali e morali alla moda. L’abbigliamento, gli accessori, le acconciature sono ingrediente fondamentale a sostegno del mito di Downton Abbey e del suo appeal sul pubblico (specialmente femminile, come è ovvio).
Sui personaggi, pur amati, il discorso è controverso, giacché la maggioranza ha poco corpo. Tra i principali, un personaggio di un certo carisma è la Mary vincente, forte, moderna per i suoi tempi ed anticonformista, volitiva e non priva di aggressività, certo non un angelo di bontà (vedasi la sorella Sybil), al punto da risultare spesso sgradevole o costantemente antipatica. Eletta protagonista per copione, circondata di pretendenti per partito preso, amata con indulgenza da quasi tutti in modo persino inverosimile - passi il fedele Carson, cui lei stessa in un’occasione dice “Carson, un giorno farò qualcosa che persino voi non mi perdonerete”, ma tutti gli altri? E’ però un’eccezione per la serie, popolata da figure non sempre incisive. Carson e la governante sulla distanza diventano buoni personaggi, migliori del cameriere personale sventurato. Gli altri, restano un po’ insipidi, anche la madre, anche le sorelle, una buona e dolce, l’altra non bella e sfortunata, anche la maggior parte della servitù. Meglio il padre, cocciuto e incagliato nelle sue convinzioni ed abitudini, ben interpretato da Hugh Bonneville. Ben presto, però, è emerso un altro personaggio in grado di reggere la serie, nato collaterale, poi divenuto il più universalmente amato: Lady Violet-Maggie Smith. Le sue battute taglienti sono diventate leggenda e, francamente, più attese degli sviluppi sentimentali della trama. Espressione della tradizione, dei valori conservatori, una donna che se potesse fermare i cambiamenti lo farebbe, poco ma sicuro, eppure tanto schietta ed acuta da conquistare tutti. Le imperfezioni sono comunque numerose. L’ex autista vedovo della sorella minore (uscita dal cast) rimane letteralmente appeso alla serie senza mai trovare il suo posto. Il villain segue un’evoluzione spesso poco coerente. Alcuni attori celebri entrano nel cast senza il dovuto sviluppo narrativo. A dispetto di tutto questo, dopo un finale in pompa magna più che conclusivo, DA è stata richiamata sugli schermi dall’entusiasmo dei suoi fan ed è sbarcata al cinema, per un bacino di spettatori mirato ma anche fortemente motivato. Il film, dunque, è un divertissement. Non porta davvero avanti la storia, non in modo rilevante, almeno. Pone giusto uno o due tasselli dove mancavano - soprattutto in relazione al vedovo rimasto in sospeso per intere stagioni e, un po’, al redento nuovo maggiordomo. Gli eventi sembrano un po’ pretestuosi: un rapido attentato al re, un arresto per riunione omosessuale, il rischio di un distacco di tre mesi tra moglie incinta e marito, la fatica di una Lady che deve tenere in piedi una antica e costosa dimora, le insofferenze di una marchesa per gli impegni che il rango impone, l’affronto dell’arroganza dei domestici di casa reale alla fiera servitù di Downton. Fellowes elargisce una pennellata per ciascuno dei personaggi, con la conseguenza che molti risultano compressi dalla coralità della storia. In questo gioco di equilibri alcuni sono più fortunati, altri meno. Il cameriere personale di Lord Crawley, ad esempio, partito in primo piano, aveva perso centralità già nelle ultime puntate e qui quasi non esiste. Di Matthew Goode, è evidente, non sapevano che cosa fare, lo dimostra il fatto che appare a giochi quasi finiti, in tempo per un ballo. Si pensi poi a quanto semplicemente si affronta e risolve la questione del fidanzamento e forse matrimonio della aiuto cuoca. D’altra parte, c’è tutto lo spirito British che il pubblico di DA tanto ama. La monarchia, la nobiltà, l’inno, il verde della campagna, gli inconfondibili paesini, la magione ed i suoi ambienti, le acconciature, gli abiti. Soprattutto gli abiti; come nella serie si insiste sui cambi d’abito ad orari fissi. E ancora il rito della cena, i camerieri personali impeccabili, i balli. I tempo cambiano, ma per certi versi Downton Abbey è gattopardesca in modo rassicurante per i suoi affezionati. A questo proposito, la contessa madre Maggie Smith - accolta da vero tifo in sala - continua ad essere emblema di un passato pieno di orgoglio, ma in un’accezione ormai positiva, vincente, con una figura capace di comprensione, se non di approvazione anche verso ciò che è distante da lei. Le sue risposte secche (“Machiavelli è sottovalutato”, “Io non litigo, spiego”), le espressioni del suo viso inseguono il mito che è diventata per gli spettatori, ricalcando l’immagine impunita e pugnace costruita attraverso 6 stagioni. Non si sentiva forse la necessità della rivelazione di Lady Violet alla nipote nel finale (parlando da sua fan, almeno), ma occorre riconoscere come sia funzionale all’assunto con cui il film vuole chiudersi: le parole della nonna servono a fugare i dubbi sull’opportunità di continuare a mantenere Downton Abbey per quello che è, a costo di fatica, preoccupazioni e sacrifici, ma anche a ribadire l’idea della continuità nel cambiamento, della diretta linea di successione tra Lady Violet e Mary, l’idea di Downton come entità a se stante, cuore dell’identità della famiglia. Anche i domestici per tutta la durata della pellicola si fanno interpreti dell’orgoglio di Downton Abbey, non in contrapposizione con la famiglia, ma a suo sostegno. Sotto questo aspetto il film, con tutti i suoi limiti, che ricalcano in parte quelli della serie, può dirsi coerente e riuscito, molto più delle sottotrame che fanno da pretesto a questa nuova celebrazione.