TRAMA
Ogni eccesso, come ogni rinuncia, reca la sua punizione. (Oscar Wilde)
RECENSIONI
Oliver Parker ha un merito che non si può negare: aver compreso che quello che rimane l'unico romanzo di Oscar Wilde, è - ridotto all'osso della struttura narrativa - una favola nera non molto dissimile, per impianto e sfondo immaginativo, da quelle contenute nelle famose raccolte dell'irlandese. Ne Il ritratto di Dorian Gray, infatti, una trama buona per un racconto viene innestata in un impareggiabile manifesto estetico, che è il vero cuore e la ragione d'essere del capolavoro: è per questo che le sue riduzioni cinematografiche (l'immobile film di Lewin del 1945, la datatissima versione 'ai giorni nostri' di Dallamano del 1970) sono risultate deludenti, fondate, com'erano su una materia narrativa sufficiente al massimo per un cortometraggio. Ecco perché la notizia di qualche anno fa dell'interessamento di Ruiz ci aveva trovati entusiasti: prediligendo le deviazioni fantasiose dalle vie maestre, il cileno avrebbe sicuramente individuato, nel labirinto teorico del romanzo, una strada astratta e integralmente autoriale, meritevole di sperimentazione; alla fine invece il progetto è approdato nelle mani di Parker, forte di due adattamenti wildiani 'corretti' (il solido Un marito ideale e il piatto L'importanza di chiamarsi Ernesto) e che, consapevole dell'esilità dell'intreccio e del carattere saggistico del romanzo di partenza, ha ragionevolmente rinunciato a una rilettura fedele. Messo da parte anche il rassicurante impianto teatrale dei precedenti adattamenti, che comportava non solo la necessità di inventarsi un gioco scenico del tutto inesistente sulla pagina, ma anche che esso fosse all'altezza dello smalto wildiano, a Parker si imponevano scelte assai delicate: un bel problema se hai a che fare con un budget di peso e, quindi, con una sostanziosa aspettativa commerciale. La via scelta dal regista è dunque quella del dramma dark che alla novella deve i principi ispiratori e l'intreccio base, ma sulla quale si va ad intervenire massicciamente: si inventi dunque un prologo che spieghi le origini del giovane, si instilli nel suo animo un tormento che trovi il suo riverbero freudiano in un trauma infantile, si prendano gli elementi più scopertamente narrativi (il fratello di Sybil Vane che giura vendetta, l'assassinio di Basil) e li si stiracchino ben bene, connettendoli a una tranche narrativa inventata all'uopo (il successivo rapporto tra il vecchio/giovane Gray e la figlia di Lord Henry), si aggiunga un elemento apertamente demoniaco (presente in forma sublimata nel romanzo, e comunque strumentale al centrale discorso inerente il rapporto tra arte e vita). Nel far questo Parker e il suo sceneggiatore si assumono tutti i rischi del maneggiare non solo un capolavoro indiscusso della letteratura, ma anche, e soprattutto, universalmente conosciuto, sollecitando, in gran parte del pubblico, il confronto (che è cosa criticamente discutibile) con le vicende narrate nel testo.
Il titolo è già un indizio e una dichiarazione dissociativa: non Il ritratto di, ma Dorian Gray, a dire che l'indiscusso protagonista sarà il giovane, non quello della pagina scritta, non il suo ritratto, non il mondo che gli gira attorno, non (soprattutto) il suo mentore Lord Henry, chiaro alter ego del Wilde pubblico e vero mattatore della scena romanzesca, il dandy cui si deve il delinearsi della dottrina trasfigurativa che nutre il cambiamento di Dorian, l'incantevole creatura nella quale implode l'universo wildiano, simbolo dei due supremi ideali (Bellezza e Giovinezza), di una vita consacrata al piacere e monito sui rischi che essa comporta; dualità importante, quest'ultima, in un libro che rappresenta in pieno l'ambivalenza del Wilde uomo e artista, il suo muoversi tra teoria (Wotton) e pratica (Gray): da un lato lo scrittore fa terminare la storia con la morte morale del suo protagonista, quasi immolandolo sull'altare del Piacere Ad Ogni Costo, dall'altro pone a prefazione dell'opera una serie di frasi che inneggiano a quella stessa filosofia che esce sconfitta dalle vicende narrate.
Il film, rinunciando a problematizzare troppo la questione, pur tentando di imbastire una narrazione coinvolgente, manifesta subito un respiro corto: la perdizione del protagonista si esplica in una banale spirale di sesso esasperato reso attraverso una sequela di immagini patinate in cui il volto del pessimo Ben Barnes, fissato in una paresi orgasmica, dovrebbe dirci voluttà, godimento, soddisfatto suggere lessenza della vita. Poi, certo, ci sono le pipe d'oppio, l'opportunistico esercizio del proprio fascino, i crimini più efferati (in primis l'omicidio dell'autore del dipinto) che sono più suggeriti che mostrati. Il rapporto della triade critpo-gay Dorian-Basil'Henry (il divino, l'umano, il diabolico) viene in qualche modo decodificato: Basil è allora palesemente omosessuale e attratto dal giovane, Henry e Dorian s'incastrano a meraviglia in una sintonia tutta di testa e che lega il primo alla contemplazione della bellezza del secondo e il secondo all'incarnazione della filosofia edonistica del primo; l'amore è un'illusione e reca sciagura, il sesso si consuma sempre con le donne (l'inghippo carnale - Parker allude a una fellatio e si becca il divieto - tra Dorian e Basil non conta: è cinica tattica del giovane per arrivare ad altro), viste al massimo come coreografiche figurine e ridotte a mero contorno fino all'arrivo di Emily, sorta di Henry in gonnella (che è, come dire, il massimo per Gray). Il film, tra un aforisma e l'altro (perché a una sequela di sentenze si riduce il centrale discorso dell'opera letteraria), si muove stancamente da un ambiente all'altro (il bordello in uno stile fiorito che ricorda Ken Russell), non approfondisce i risvolti, stende frettolosamente il suo vuoto elenco di avvenimenti, dissipa ogni enigmaticità dalla figura del protagonista, facendone un banale sciupafemmine che trova l'amore troppo tardi, regala una soggettiva al ritratto (idea interessante, peccato che poi si dia vita al dipinto con un effettaccio digitale da horror di quart'ordine), butta all'aria il personaggio della giovane Wotton (non così peregrino, per essere estraneo al romanzo, nel suo simboleggiare una femminilità emancipata e intelligente, progressista e intuitiva), imbalsama la drammatizzazione prediligendo lo scontato maledettismo, sfiorando appena il tema della solitudine dell'anti-eroe prigioniero della sua bellezza freaky.
Parker, alla quieta macchina da presa dei suoi precedenti, sostituisce un registro tutto dolly e vorticosi cambi di prospettiva, un approccio visivo modaiolo e forsennato, sottolineato da una musica anticlassica che enfatizza, con ingenuità stilistica francamente imbarazzante, qualunque cosa dicano i protagonisti.