Commedia, Surreale

DOPPIA PELLE

Titolo OriginaleLe daim
NazioneFrancia
Anno Produzione2019
Durata77'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Georges si mette in viaggio per raggiungere una zona montuosa e comprare una giacca, realizzata al 100% con pelle di daino da Monsieur B.

RECENSIONI

«Forse che la natura non nasconde all’uomo
quasi tutto, perfino riguardo al suo corpo,
per confinarlo e racchiuderlo in un’orgogliosa
e fantasmagorica coscienza, lontano dall'intreccio delle sue viscere,
dal rapido flusso del suo sangue
dei complicati fremiti delle sue fibre?»
F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci

Si comincia in un limbo.
Un’automobile, e una figura schiacciata sullo sfondo che la conduce; un’entità indefinita che la macchina da presa isola impostando la lunghezza focale in profondità, verso il paesaggio, con il soggetto che resta fuori fuoco.
Poco più avanti, lo scenario evocato poc’anzi si capovolge: il personaggio che fino a un attimo prima risultava essere impalpabile, quasi disincarnato, trova in una giacca in pelle di daino il proprio veicolo estatico d’esistenza.
Quentin Dupieux fa iniziare Doppia Pelle in una zona intermedia sospesa tra logos e natura o, meglio ancora, in uno spazio all’interno del quale la coscienza si ridefinisce a partire da una ritrovata animalità. A questo proposito, la scena nella quale assistiamo all’incontro tra il protagonista e il suo nuovo corpo è, nella sua esattezza e precisione, illuminante: nella prima inquadratura vediamo Georges (interpretato da Jean Dujardin, attore di risonanza internazionale che viene con decisione spogliato della sua aura iconica) contemplare stupefatto un soprabito in pura pelle di daino, un vestito che finirà per scambiare con tutto il denaro che gli resta (primo grado di separazione dal proprio passato); nell’inquadratura successiva, Dupieux ci mostra l’animale stesso in carne e ossa, immerso nel proprio habitat mentre guarda in camera, ponendo così in relazione immediata i due soggetti (da dimensioni separate e parallele) per la prima volta; nel terzo quadro, il protagonista indossa finalmente il daino, marcando in questo modo la complementarietà delle due anime, caratteri scissi eppure simbiotici (la falsa dicotomia uomo/bestia ci viene più avanti riproposta in un primo momento per mezzo di un campo/controcampo che mostra Dujardin interpretare alternativamente, attraverso una minima modulazione vocale, Georges e la sua giacca, e in seconda battuta da un campo medio che abbraccia in un unico quadro il personaggio, il vestito e lo schermo vuoto di un televisore).

Doppia Pelle si snoda dunque attraverso uno strampalato itinerario che conduce Georges non verso un’autentica invenzione esistenziale, ma bensì nella direzione di una riprogrammazione della propria identità a partire da un orizzonte pregresso.
Al di là del processo di rimozione del passato che Georges pone in essere (la fede nuziale usata come merce di scambio, ma anche l’ultima telefonata con la moglie, la quale laconicamente rimarca la fragile condizione dell’ex-marito: “tu non sei da nessuna parte… non esisti più”), è nell’incontro con la barista Denise, interpretata da Adèle Haenel, che il protagonista si trova definitivamente allo specchio. Il controcanto femminile di Georges, infatti, sostiene di essere un editor cinematografico che, a tempo perso, “rimonta film già esistenti, cambiandone la storia” (il personaggio di Denise ha dimostrato infatti a sé stesso che l’atto di assemblare in ordine cronologico le sequenze di Pulp Fiction rende il capolavoro di Tarantino un film privo di senso, un tradimento alla sua naturale programmazione), e il suo hobby de-costruttivo costituisce un evidente eco dell’avventura esistenziale che Georges esperisce.
Il film di Dupieux mette quindi in scena, in sintesi, l’accidentato percorso di ridefinizione identitaria di un normale individuo di mezza età, il quale si libera di un vecchio vestito (emblema di ciò che, in un’esistenza precedente situata in una dimensione ignota allo spettatore, egli è stato) affinché una nuova soggettività, fondata sia sul potere materico della carne (l’entità animale e, conseguentemente, il delirio narcisistico che porta il protagonista a rivendicare con violenza la propria unicità ritrovata) sia sull’atto creativo/distruttivo come momento metafisico di rispecchiamento in una rinnovata energia primigenia (l’improbabile “film” che Georges e Denise cercano di mettere insieme), possa emergere.

Infine, di fronte al compimento della corporeità in opposizione alla civiltà, del desiderio di libertà come naturale reazione all’omologazione sociale, il protagonista si identifica totalmente nell’involucro che, pezzo per pezzo, ha costruito intorno a sé. Abbattuto da un colpo di fucile, come un animale selvatico qualsiasi, lascerà in eredità la sua pelle alla compagna di viaggio Denise. La mutazione prosegue, quindi, ad libitum, e il cinema di Quentin Dupieux non è mai stato così esatto e limpido nel mostrarsi come oggetto obliquo, metamorfico, tanto riconoscibile e monolitico quanto ossessionato, appunto, da un’ammirevole volontà di riassorbimento perpetuo.