TRAMA
Dopo 15 anni di matrimonio, Marie e Boris decidono di divorziare. Dal momento che Boris non può permettersi un’altra casa, devono continuare a vivere insieme.
RECENSIONI
Joachim Lafosse torna nel teatro domestico, e come in Proprietà privata [1], come in À perdre la raison, la casa diventa, da territorio condiviso, campo di battaglia. Ed è tutto concentrato in questo spazio il film: nelle stanze che hanno visto crescere un’unione che si è trasformata in transazione strenua, uno spazio che è esso stesso oggetto del contendere.
Quello di Marie e Boris non è solo lo scontro tra un marito e una moglie alle soglie del divorzio, è un dissidio tra condizioni sociali, radici diverse e diverse visioni della vita. Esauritasi la passione, le loro differenze riemergono come motivi di contrasto, la disputa si fa culturale: non conta più l’investimento esistenziale, conta solo quello del denaro - speso e da spendere -, contano i progetti concreti, realizzati e falliti; alla romanticheria subentra la ragioneria, tutto rovina in rude conteggio, squallido elenco, ripartizione di ruoli, oggetti, tempo filiale.
Lafosse dimostra sempre una riconoscibile sensibilità nel maneggiare materiale che scotta: non sciorina verità, preferendo sollevare interrogativi, procede per itinerari narrativi impervi e non ammette la facile soluzione (per tutti lo scomodità controversa di Élève libre - sesso: adulti e minori -, terreno minato affrontato con una lucidità abbacinante e nessun tatticismo morale), non incatena i suoi personaggi a delle dinamiche prevedibili, li pone di fronte a dilemmi credibili, evita manicheismi, mostra la complessità delle situazioni, luci e ombre: nessuna ragione assoluta, nessun torto evidente
Lo stesso avviene in questo film che racconta come la situazione più dolce, diventi, proprio per questo, la più amara: finita l’intesa, la famiglia si svela come soluzione pratica, con risvolti pratici, che, quando fallisce, determina conseguenze pratiche. E Lafosse la guarda da questo punto di vista: intimo, quotidiano, materiale, evitando il letterario confronto di psicologie, lasciando parlare il contesto, gli ambienti curati, i mobili scelti con gusto, questa accogliente scenografia di una felicità perduta, le sue vestigia fumanti. E descrive ciò che dell’armonia di questa coppia è rimasto in piedi: l’amore per le figlie (gemelle, dunque solidali e affettivamente più autonome, quasi a rendere il gioco al massacro tra i genitori ancora più equilibrato, esclusivo), il ricordo sbiadente di un’intesa, un affetto reciproco che, nonostante tutto, nel fondo, un po’ residua. La scena (bellissima) del ballo racchiude tutto questo con i due coniugi che riacquistano per un momento coscienza di un patrimonio astratto, sentimentale, che apparteneva loro e che è oramai dilapidato, svalutato da considerazioni di altro tenore: non è un caso che avvenga allorquando il conflitto si è fatto più aspro. In questa zona grigia si muove il film: nell’incertezza se quella del denaro sia la questione vera, se esso non rappresenti solo il feticcio che va a celare un altro tipo di crisi. Ogni volta che il punto dolente sembra essere quello sentimentale si agita lo spettro economico. E viceversa: a chi guarda giudicare.
Attori meravigliosi: Bérénice Bejo - che impersona con grande sottigliezza il decisionismo esteriore e la fragilità interiore di Marie - e il regista Cédric Kahn - una vera rivelazione, perfetto nel suo oscillare tra disperazione autentica e un capriccioso, quasi infantile istinto alla ripicca - sono strumenti accordatissimi con la prosaicità della partitura. E Lafosse è un magnifico autore che meriterebbe tutt’altra attenzione.
[1] *Come per Proprietà privata, anche in questo caso il titolo originale è molto più incisivo: sia Nue proprieté che L’économie du couple rifacendosi a un linguaggio giuridico-commercialistico, sono espressioni ambigue che si muovono in bilico tra l’aridità del diritto e la liquidità dei rapporti umani.