TRAMA
Una coppia di astronomi si accorge dell’esistenza di un meteorite in rotta di collisione con la Terra che distruggerà il pianeta in sei mesi.
RECENSIONI
Adam McKay è uno che non ha aspettato il razzo di Elon Musk per andare su un altro pianeta. Questo nuovo pianeta, all’epoca, si chiamava “televisione”. Certo, quella in cui McKay scelse di abitare già in giovane età non era la televisione delle più recenti generazioni. Era la televisione selvaggiamente pionieristica dei decenni di mezzo, quella che cominciava a gonfiarsi smisuratamente, rischiando di inghiottire il mondo intero, e che più si gonfiava più chiaramente lasciava intravedere il fondamento della propria struttura. E questo fondamento poteva riassumersi in modo abbastanza semplice: “hai tot minuti, e bisogna che li riempi. Mettici quello che ti pare, ma fai in modo che gli spettatori rimangano lì perché dobbiamo esporli alla pubblicità”.
Con ogni evidenza, a riempire quantità preordinate di tempo McKay si è sempre divertito come un pazzo. Fu dunque facile, per lui, fare carriera attraverso la punta di diamante di quel pianeta: il Saturday Night Live. E mentre la sua abilità cresceva con gli anni, diventava sempre più evidente che partendo dall’imperativo di riempire un tot di tempo vuoto era possibile “fare cose”, e financo deviare dall’informe cui la televisione sembra votarsi per statuto, per raggiungere gli augusti lidi della Forma. E che financo un Will Ferrell non era che un blocco di marmo da cui uno scultore abbastanza esperto poteva, lavorando di fino con gesti, tic, ritmi etc., ottenere un autentico monumento.
Sulla scia di questo, era dunque fisiologico che McKay arrivasse al cinema; anche perché, nel frattempo, la televisione stava cominciando a diventare qualcosa di diverso dal pianeta in cui migrò anni prima. Non solo. Sempre in quel frattempo, il mondo stesso (e soprattutto la sua nazione) stava cominciando ad assomigliare sempre di più al SNL. Il suo pianeta ricominciava ad essere la Terra, perché quest’ultima era stata ormai definitivamente inghiottita dalla televisione. E se persino la Casa Bianca cominciava a subordinare completamente la politica ad esigenze di spettacolo, se insomma l’attualità politica e l’infotainment cominciavano a essere indistinguibili, era inevitabile che quella di ex collaboratore del SNL diventasse una posizione particolarmente privilegiata da cui inventarsi una forma di cinema civile particolarmente azzeccata in rapporto alla nostra delirante epoca storica. Ecco dunque The Big Short e Vice.
In quei film, McKay consolidava la propria posizione di nemesi assoluta della generazione appena precedente, che era quella della New Hollywood. Quest’ultima veniva dalla televisione ma voleva comunque guardare al cinema: e non per caso la maggior parte dei vari Coppola, Scorsese, De Palma etc. aveva un background cattolico del tutto in linea con l’ipotesi “redentiva” da loro portata avanti (la televisione ha ammazzato il cinema, ma il cinema risorge ancora più forte). Non così McKay. Per McKay, la televisione è tutto. Non c’è alcun bisogno di remargli contro: è il mondo, e basta. La digressione e il riempitivo (i dogmi della televisione che conobbe McKay), ritmati con le giuste raffiche, possono essere una forma d’arte: e devono, anzi, essere la forma d’arte di un mondo mutato nell’infotainment di se stesso, in cui il deficit dell’attenzione è strutturale, e l’umanità è diventata una roba che per autoriconoscersi come umanità ha bisogno di continui, ininterrotti stimoli nervosi.
Don’t Look Up non fa eccezione. Certamente si tratta di una satira dell’apparato mediatico, che distoglie l’attenzione da un’apocalisse annunciata come ineluttabile. Ma McKay conosce troppo bene la televisione per non sapere che la satira su se stessa è uno dei grandi classici della televisione, anche mainstream. Se l’apparato mediatico è così forte, è precisamente perché sa autocriticarsi. Dunque McKay fa un film in tutto e per tutto isomorfo all’apparato di cui fa la satira: un film che a forza di gag e altri stimoli nervo-spettacolari fa dimenticare in ogni momento allo spettatore l’arco narrativo generale, che si compie puntualmente con l’apocalisse. Un film, insomma, che come la televisione è completamente schiacciato sul presente, a detrimento della linea del racconto che collega sequenzialmente gli eventi partendo da un inizio, attraversando un mezzo e arrivando a una fine.
Questo arco ovviamente c’è, e coincidendo con la fine del mondo è bello vistoso – però è quello a spaccarsi, e non la cometa globicida che si tenta invano di far esplodere. Cometa che, peraltro, è da qualche millennio annuncio di resurrezione, e che qui invece coincide con l’annichilimento totale (altro schiaffo, forse inconsapevole ma comunque inequivocabile, alla cristologica New Hollywood). Ma è un annichilimento che, negando il futuro, annuncia appunto il presente come pianeta sconosciuto.
L’arco infatti si spacca in due sul medesimo asse. Da un lato, la facoltosa élite che, grazie al solito cialtrone alla Musk, Jobs, Gates etc., riesce a sopravvivere all’apocalisse approdando a una specie di Pandora di Avatar della mutua. Dall’altro, i morituri che, davanti alla negazione del futuro, riscoprono il presente (e con quello, il passato). Ad essere decisivo è che da ENTRAMBI i lati, troviamo il medesimo allineamento tra media, scienza e religione. Da un lato, abbiamo il solito “complesso militare-industriale”, le cui propaggini più recenti grazie ai soliti cialtroni alla Musk, Jobs, Gates etc. hanno ulteriormente rinserrato il loro legame con la scienza con grande attenzione a come essa viene mediatizzata, con toni ormai apertamente messianico-religiosi. E del resto questo allineamento, un tempo rilevato perlopiù dalle avanguardie critiche (tipo, per dire, Harun Farocki), oggi è mainstream e pienamente esplicito, e nessuno si sogna più di buttarlo nel calderone dei “complottismi”. Dall’altro lato, abbiamo scienziati che per tutto il film sono stati trasfigurati dai media in profeti invasati, con o senza barba, pronti a strepitare che “moriremo tutti” (sai che novità: quando mai non è stato così?) e che nel finale si uniscono a un ragazzetto evangelico (Timothée Chalamet in un personaggio che è la più classica delle stampelle di sceneggiatura: ma è componente non piccola dell’arte televisivo-artigianale di McKay quella di usare mille stampelle e non farne sentire nessuna), incaricato di introdurre con la sua preghiera una cena rigorosamente a tv spenta, perché i commensali sono diventati sitcom viventi loro stessi.
Quindi McKay non ci sta affatto dicendo che la scienza è buona e i media sono cattivi perché ne distorcono la verità. Ci sta invece dicendo che media, scienza e religione sono inseparabili, ma che è possibile configurarli in maniera diversa da quella dei soliti cialtroni alla Musk, Jobs, Gates etc. – che poi da secoli (già ai tempi dei vecchi poteri coloniali e imperialisti con cui ha avuto inizio la modernità) è sempre la stessa solfa: quella che è emanazione ed estrinsecazione di una visione del mondo determinista, per cui non esisterebbe nulla che sfugga alla pseudo-scientifica (e davvero confutata dalla scienza stessa in mille maniere) legge del concatenamento necessario e incontrovertibile tra le cause e gli effetti, “in sé” e separatamente dall’agente di osservazione, rilevazione e ricostruzione del tessuto stesso che lega insieme le cause e gli effetti. Il travestimento oggi di moda di questo vecchio equivoco si chiama “algoritmo”: ed è appunto per sfuggire all’algoritmo che gli ha predetto una morte in solitario che il personaggio di Di Caprio allestisce la sua ultima cena.
Anche se ben nascosto dal fiume in piena di digressioni, riempitivi e quant’altro, un sottotesto utopico (cioè l’indicazione di una possibilità per il presente di essere diverso da quello che è) Don’t Look Up ce l’ha. Se il film fosse soltanto una satira dei media, McKay non sarebbe fedele a se stesso, e alla propria totale aderenza al pianeta televisivo (quello che conobbe lui, quantomeno). E invece mai come in questo film è fedele all’uno e all’altro. McKay non ci sta proponendo di adottare una distanza critica verso l’universo mediatico, e non ce lo propone perché sa fin troppo bene quanto questa distanza critica sia essa stessa parte integrante di quell’universo. Ci sta invece proponendo di aderire in tutto e per tutto, come ha fatto lui, alla nuova psico-biologia incarnata dai media di oggi (inclusi financo deficit di attenzione, necessità continua di stimoli nervosi etc.): solo così, solo facendoli scomparire dentro la nostra stessa adesione, sarà possibile riannodare in un senso diverso da quello determinista il nodo inestricabile tra media, scienza e religione.
“Degli argomenti proposti si deve cercare non ciò che gli altri ne hanno opinato o ciò che noi stessi congetturiamo, ma ciò che possiamo intuire con chiarezza e evidenza o possiamo dedurre con certezza; infatti la scienza non si acquista in modo diverso”.
Con queste parole René Descartes, nel suo Regulae ad directionem ingenii, circoscrive gli elementi paradigmatici del processo veritativo al quale lo spettatore assiste fin dalle prime battute di Don’t Look Up: la dottoressa Kate Debiasky (Jennifer Lawrence), infatti, passa dall’iniziale osservazione, stupita ed estatica, del fenomeno celeste (la cometa che nel film rappresenta il proverbiale cigno nero capace di sconvolgere tutti gli equilibri pregressi, autentici o falsi che siano: ricorda qualcosa?) al progressivo e appassionato approssimarsi verso l’oggetto del proprio studio, avvicinamento che conduce l’equipe di astronomi guidata dal professor Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) verso i lidi di quella certezza, evocata dal succitato filosofo francese, che disvela i contorni di uno scenario prevedibilmente catastrofico.
Nell’ultimo lavoro di Adam McKay (anche sceneggiatore e produttore) lo spettatore viene messo di fronte alla frattura tra evidenza e manipolazione strumentale della stessa, palcoscenico umano-troppo-umano schiacciato da un cosmo indifferente che segue, senza alcuna considerazione per le preoccupazioni terrestri, il proprio inesorabile programma. Sono proprio i diversi gradi di determinazione del fenomeno a disegnare i caratteri degli attori in gioco: Kate Debiasky è il polo radicale e intransigente del sistema, il personaggio che fino alla fine rifiuterà ogni tipo di compromesso con i giochi di palazzo andando così incontro al confinamento; il Professor Mindy, d’altra parte, è la corda tesa tra il senso di responsabilità morale, incarnato dallagiovane allieva, e le lusinghe del potere.
Infine, abbiamo il nucleo costituito dall’impero mediatico-governativo che, oltre a remare contro ogni logica di compensazione, gestisce l’appropinquarsi dell’evento con l’intento di veicolare cinicamente il consenso popolare (dopo aver ascoltato l’esposizione dei dati snocciolati dal professor Mindy e dalla dottoressa Debiasky, un segretario della Casa Bianca minimizza la portata del fatto: “Se lo definissimo un evento potenzialmente rilevante?”) e di sfruttare improbabilmente le opportunità materiali che la cometa porta con sé (le terre rare tanto bramate dal guru hi-tech Peter Isherwell, interpretato da Mark Rylance).
Al di là dello spirito dell’opera delineato poc’anzi, al cineasta americano interessa in particolare esplorare i meandri di quest’ultimo microcosmo, e la sua disamina è tanto impietosa quanto mono-dimensionale: l’umano è descritto essenzialmente come cellula di una massa infantile schiava del machine-learning e dell’intrattenimento di bassa lega, entità plasmabile sia da un’industria dello spettacolo costretta nel ruolo di imbonitrice seriale, sia da un esecutivo tenuto sotto scacco dalla multinazionale di turno. Il problema di questa prevedibile e crassa antropologia negativa si iscrive nel cortocircuito di senso che essa stessa costituisce: se è vero infatti che il circo mediatico e l’apparato governativo impediscono di fatto il costituirsi di un reale spazio conoscitivo e assiologico sulla questione, è altresì evidente come un simile disarmante ritratto manifesti apertamente un cinico scetticismo aprioristico sulla possibilità che una qualsiasi ipotesi olistica di lavoro in merito possa prendere forma. In sostanza, una tale esibita sfiducia rivolta verso la prospettiva di un accordo tra i vari ambiti di indagine dell’esistente (scientifico, politico, mediatico, filosofico ecc.) svilisce l’intero discorso al livello di una satira monocorde, all’interno della quale emerge una visione appiattita sulla convinzione che, in fondo, tutto quello che possiamo auspicarci sia una sonora, roboante estinzione.