TRAMA
Iran, 1953: sullo sfondo tumultuoso del colpo di stato, tramato dalla CIA, i destini di quattro donne convergono in un bellissimo giardino di orchidee dove troveranno indipendenza, conforto e amicizia.
RECENSIONI
La volontà che trasforma tutto si era impossessata di me. Nell'istante del suo suicidio, ultimo e disperato atto per l'emancipazione , Munis ripercorre una possibile vita, cerca il riscatto espandendo il dramma privato (comune a tutte le protagoniste) dentro i confini immobili della Storia.¹
Il fermento politico si presta così a dinamizzare uno spazio congelato, prigioniero tra la rigidità della tradizione e il cicaleggio bohemien della (nuova) classe intellettuale occidentalizzata. Desiderio ardente per una libertà democratica, per un rinnovamento del Paese, accompagnato dalla viva e salda dignità femminile. La donna da oggetto diviene partecipe dell'agognata lotta per il progresso, non più spettatrice della propria esistenza (numerosi i richiami all'attività passiva dello sguardo), ma rilegando, allo stesso tempo, parte della sua natura nei confini illusori di un luogo incantato. Rimane quindi quello spettro utopico di un cambiamento (presto disatteso), un mondo di pace e tranquillità, dove l'unica figura maschile è custode e non carnefice, dove il tempo sospeso (del sogno?) rivendica la sua essenza eterna (è sempre stato lì), dove gli occhi non sono più obbligati ad autoriflettersi nella dignità, repressa, di un primo piano. Il deserto però incombe, pronto ad ardere quel bosco incantato che ricollocava la Madre Terra nel giusto posto. Perché la Storia, ancora inquietantemente ciclica, non ha pietà e preferisce il carcere digitale di una stasi. Attendendo che qualcosa si smuova (forse è più vicino di quanto sembri), accogliamo Munis come l'ennesimo sacrificio per la libertà.
Di formazione videoartistica, la Neshat impregna la sua opera con un'atmosfera fortemente visionaria, spingendo la regia ai limiti di una sperimentazione estetizzante. Il sentore manieristico non tarda a farsi sentire, sospinto com'è da un virtuosismo tanto splendido quanto autocompiaciuto, che gioca insistito con il tempo filmico dell'immagine. Inscindibile da uno spazio quasi estraneo a chi lo abita, la temporalità è soffocante, in perenne tensione per un'evoluzione, accogliente sì nella sua dimensione onirica, ma perlopiù bloccata da uno scomodo passatismo. Sono le concessioni alla retorica (troppo spesso esplicativa) che appesantiscono una visione suggestiva, ammaliante, non necessariamente arricchita dai numerosi simbolismi e impianti metaforici forti. E' solo una piccola puntualizzazione, perché Donne senza uomini riesce a unire la sperimentazione (contaminata con interesse da altri stimoli audiovisivi) con una struttura solida e oculatamente centrata.
Il problema di chi passa dalla video-arte al cinema è quello di cercare, e soprattutto trovare, un equilibrio tra lo stile e la comunicazione. Si potrebbe abdicare a favore dell’uno o dell’altro, guadagnando in compattezza, ma l’obiettivo di arrivare a un pubblico il più possibile ampio spinge verso una difficile via di mezzo, che finisce per scontentare un po’ tutti. Shirin Neshat è un’artista iraniana di fama mondiale (ha vinto, tra gli altri, il Premio Internazionale alla Quarantottesima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia) e si è sempre distinta per opere dal forte contenuto sociale, con particolare attenzione alla condizione delle donne del suo paese. Il suo debutto nella regia è tratto dall’omonimo romanzo di Shahrnush Parsipur, celebre scrittrice iraniana censurata dal regime ed esiliata negli Stati Uniti, e si concentra sul disagio di quattro figure femminili nell’estate del 1953, anno fatidico per l’Iran a causa di un colpo di stato tramato dalla C.I.A. che ha destituito il Primo Ministro regolarmente eletto ripristinando la figura dello Scià (i corsi e ricorsi della Storia sono peculiari). Chi non è documentato sui fatti storici faticherà a districarsi nella narrazione, punto debole di un’opera che gode di un interessante apparato visivo senza però bilanciarlo con la capacità di esplicitare in modo organico le dinamiche dei personaggi. Lo spettatore occidentale poco informato rischia quindi di trovarsi spaesato davanti al fantasma di una ragazza che fugge attraverso il suicidio a un matrimonio combinato e si unisce ai rivoluzionari, perché non capirà che solo un fantasma aveva, e tuttora ha, la possibilità di esprimere le proprie idee entrando in un convito rigorosamente maschile. Desta poi qualche sospetto, circa la sincerità del progetto, il consueto menù di soprusi e ingiustizie con cui si contamina la ricerca stilistica. Un utilizzo più che lecito del mezzo cinematografico, certo, ma forse un po’ troppo calcolato nell’indignazione che si prefigge.