TRAMA
L’ufficiale di polizia danese Christian Toft lascia il suo appartamento, dimenticando di portare con sé la pistola. Prende in prestito quella del suo compagno Lars Hansen, che viene assassinato da Ezra Tarzi, un membro dell’ISIS. Si scopre che un agente della CIA, Joe Martin, ha fatto di Ezra un agente doppiogiochista. Con l’aiuto della poliziotta Alex, che aveva avuto una relazione con Lars per anni, Christian inizia una caccia per vendicare la morte del compagno.
(da Wikipedia)
RECENSIONI
Le traversie produttive che hanno funestato Domino sono ormai note e rendono da un lato più facile, dall’altro più difficile parlare/scrivere – meglio – farsi un’idea sull’ultimo film di Brian De Palma. Più facile perché si sa a chi/cosa attribuire la responsabilità per le parti (che ci sembrano) meno riuscite del film, più difficile perché si è convinti di sapere a chi/cosa attribuire la responsabilità per le parti (che ci sembrano) meno riuscite del film. Ma forse non dovremmo. Abbiamo un testo, proviamo, almeno inizialmente, a fermarci lì.
Domino è (quasi) aperto e (quasi) chiuso da due sequenze depalmiane fino al midollo. La prima va dal lento zoom sulla pistola lasciata in camera da letto alla caduta di Christian Toft e Ezra Tarzi sulle cassette della frutta. Un continuo disseminare di indizi ed esche per lo spettatore, chiamato a prestare attenzione a particolari grossolani (le scarpe sporche di sangue) o più ambigui (tutto sembra ruotare intorno alla pistola dimenticata: sarà davvero così importante?). La suspense è costruita dilatando i tempi in modo irrealistico e innaturale, puramente cinematografico (come sempre in De Palma), tra primissimi piani funzionali e/ma estetizzanti e campi controcampi enigmatici e ambigui (quanto e cosa c’è negli insistiti scambi di sguardi tra Christian e Lars?).
La seconda, ambientata durante la Corrida, è una quasi-riproposizione concettuale (e, parzialmente, estetica) della scena madre di Snake Eyes, girata in (falso) piano sequenza tra gli spalti della Atlantic City Arena. De Palma costruisce il suo piccolo puzzle in montaggio alternato, giocando con la scala dei piani e, di nuovo, dilatando i tempi fino alla sospensione della sospensione di incredulità, tematizza l’eterno discorso sulla riprovisione cercando di attualizzarlo, utilizzando (le soggettive di) un drone, sorta di icona della modernità audiovisiva, che non solo diventa lo sguardo di De Palma e del pubblico ma che finisce per irrompere metaletticamente nella diegesi, accoppando l’attentatore.
Incastonate tra le due scene madri, ci sono altre depalmate DOC, come i momenti in cui la narrazione si fa disinteressata e sconfina nel quasi-ridicolo (la love story, e la gestione filmica della love story, tra Alex e Lars) oppure ambigua fino all’indecidibile (quanto pesano, realmente, i sensi di colpa di Christian Toft?). Ma, soprattutto, troviamo altri marchi di fabbrica metatestuali, primo fra tutti lo split screen con cui viene mostrato l’attentato suicida ambientato – non a caso - durante il Festival del Cinema di Amsterdam, con metà-meta-schermo che emula la classica soggettiva da First Person Shooter bellico alla Call Of Duty, anche se la composizione del quadro e la coreografia delle uccisioni (e delle animazioni) hanno un feeling più anni ’90 (Doom, Duke Nukem et similia).
Ora, se leggendo queste righe avete alzato il sopracciglio e fatto spallucce, vi capisco. Roba vecchia. Già vista, rivista, letta e riletta. Vogliamo parlare delle traversie produttive dell’inizio? Facciamolo adesso. Il discorso si fa commovente. De Palma è un signore di quasi 80 anni, una carriera dedicata al Cinema – meglio – alla seduzione legata alla Teoria del Cinema. Si è fatto sedurre, ci ha sedotto, ma ora rischia di abbandonarci. Per motivi anagrafici, certo, ma anche perché per quel cinema lì, per il suo/nostro cinema non c’è più spazio. E lui sta finendo nell’oblio. Domino è il suo terzo film in 12 anni, è una coproduzione affollata, ha un budget relativamente esiguo (non arriva agli 8 milioni di dollari) ed è stato sostanzialmente disconosciuto dallo stesso De Palma. Che però è sempre De Palma, porta avanti il suo discorso con un coraggio quasi eroico. Ma anche con una passione tale che diventa lucidità. Ci crede e “ci fa credere”, aggiornando il non aggiornabile, attualizzando il non attualizzabile. E pazienza se le esplosioni in Computer Grafica sono da produzione Asylum e gli spalti della scena madre sono semivuoti. Domino è comunque un oggetto prezioso, più prezioso e depalmiano di quello che si dice/scrive in giro. E di quanto non pensi lo stesso Brian De Palma.