TRAMA
Andrea Serrano ha 29 anni, sa di essere uno scrittore, ma al momento campa lavando i pavimenti di un obitorio: difficile dare un senso alla propria esistenza quando ci si sente una comparsa nella vita degli altri, invece che il protagonista nel proprio storytelling personale. Tutto cambia quando Andrea pubblica il suo primo romanzo, Non finisce qui, e un produttore, Oscar Martello, se ne dichiara così entusiasta da volerlo trasformare in film. In una Roma dove «nessuno dice quello che pensa e nessuno fa quello che dice», Martello non ha peli sulla lingua e si dimostra di parola, affiancando ad Andrea un regista e una protagonista, Jacaranda Ponti, che guarda caso è la donna dei sogni dello scrittore. Peccato che il regista si riveli un “Tarkovsky dei poveri” e trasformi Non finisce qui in un film inguardabile: la carriera di Andrea rischia di naufragare, così come quella della bella Jacaranda. Riusciranno i due a recuperare dignità, umana e professionale?
RECENSIONI
Vale la pena, forse, fare subito un passo indietro. Sono passati tre anni da quel Mine di cui si è molto parlato: scritto e diretto da Fabio&Fabio (Guaglione e Resinaro), opera prima in coproduzione Stati Uniti, Italia e Spagna, cast internazionale, un protagonista di spessore come Armie Hammer, ma soprattutto il dichiarato desiderio di smarcarsi dalle maglie spesso troppo rigide e pavide del contesto produttivo italiano. Come scriveva Eddie Bertozzi nella recensione, Mine era un «film-sfida, caratterizzato da un'assoluta fissità spaziale, sulle orme del Buried di Rodrigo Cortés» (e non a caso i due lavori hanno in comune la figura del produttore Peter Safran): un film su un marine costretto a restare immobile per giorni in un deserto del Nord Africa dopo essersi accorto di aver calpestato una mina antiuomo. Insomma, un No Man's Land in cui la denuncia politica veniva sostituita dalla psicanalisi.
Dopo aver scritto e spinto in coppia un altro interessante esordio dalle ambizioni internazionali (Ride di Jacopo Rondinelli: ci torneremo), il secondo dei Fabio decide di mettersi in proprio e di spostare, e non di poco, l'oggetto del suo sguardo. Non più l'America e non più velleità di racconto vagamente sperimentali (le GoPro e la struttura a videogioco di Ride), bensì un film italiano in tutto e per tutto; anzi, un film orgogliosamente romano e quindi italiano. Roma caput mundi, Roma come capitale sineddotica per eccellenza. Roma come girone infernale (davvero indovinato il leitmotiv musicale: Brucia Roma di Venditti, anche in virtù della sua evidente assonanza con il titolo del film, è capace di innescare un cortocircuito piuttosto intelligente) in cui di dolce è rimasta solo la sua proverbiale grande bellezza, ma dove l'unico modo per evitare di dover pulire obitori per tutta la vita in un limbo che puzza di morte, sembra essere quello di sconfiggere il diavolo al suo stesso gioco. Roma dove i vecchi sono demoni, ma i giovani, in fin dei conti, sono perfino peggio. Dolce Roma, dolce e avvolgente come il miele.
Va detto, Resinaro non rinnega la volontà di parlare con un linguaggio fresco e atipico per la produzione nostrana contemporanea: Dolceroma è infatti un film costantemente sopra le righe, urlato e senza mezze misure, dove però ad una struttura narrativa divertente e capace a volte di sorprendere corrispondono scelte stilistiche tanto estreme quanto, in fin dei conti, vuote e gratuite (esemplificazione su un piano meramente visivo della vacuità di un intero mondo, quello del cinema romano-e-quindi-italiano?). Difficile però appassionarsi ad una satira sul mondo del cinema così poco centrata, così abile e furba nel cavalcare quelli che ormai sono luoghi comuni estremamente consolidati (il produttore luciferino e fedifrago, il regista che vuole essere autore a tutti i costi, il cinema come mondo di perdizione e favoritismi), che finiscono quindi per coccolare l'immaginario dello spettatore invece di scuoterlo. Inoltre, se è vero che l'anima del progetto è dichiaratamente (stra)cult e lo spirito fieramente spaccone (non si fa mezzo passo indietro nemmeno di fronte ad un tripudio di fuoco digitale realizzato in modo piuttosto discutibile), tali scopi sono perseguiti in modo talmente insistito e meccanico da perdere, con il passare dei minuti, gran parte di quell'ingenua spontaneità capace di far davvero breccia nei nostri cuori. Irresistibili invece Barbareschi (produttore nel/del film: è solo uno dei tanti riferimenti meta- che arricchiscono il racconto) e Richelmy, capaci di dare vita a un duello che appassiona anche nei momenti più fragili della vicenda.
Dove invece Dolceroma mi pare quantomeno interessante è nella continuità tematica con i precedenti lavori di Fabio (&Fabio). Quella tra l'essere protagonisti della propria vita e l'essere comparse nella vita di qualcun altro è una tensione che a ben guardare Resinaro aveva già affrontato sia nel metaforone psicanalitico di Mine (sconfiggere la paura, riprendersi in mano, da protagonisti, la propria vita e fare un passo avanti) che in Ride (la dimensione videoludica open world come mondo capace di dare un'illusione di libertà quando invece si è sempre all'interno di un sistema programmato e senza via d'uscita, comparse nel gioco di qualcun altro). Certo, nulla di veramente nuovo e soprattutto nulla che sia stato sviluppato o approfondito in modo particolarmente efficace e memorabile; ma per un regista che vuole dichiaratamente spingere su progetti così bizzarri e imprevedibili, forse, è comunque qualcosa da non sottovalutare.