Recensione, Western

DJANGO UNCHAINED

TRAMA

Texas, 1858. Lo schiavo Django viene turbolescamente “acquistato” dal Dr. King Schultz, cacciatore di taglie. E’ l’inizio di una (specie di) amicizia, di una missione di salvataggio e di una vendetta.

RECENSIONI

Premessa di (mancanza di) metodo. Le righe che seguono non hanno l’ardire di esaurire il discorso su Django Unchained come hic et nunc del cinema di Tarantino, uno di quegli autori che spingono, ogni volta, alla recensione riepilogativa, quella che fa il punto su una carriera. E’ un tranello. Un po’ perché trascina il malcapitato di turno in un campionario di risapute ovvietà (che non interessa i lettori degli Spietati), un po’ perché evade i confini naturali della recensione e spinge a un’approssimazione che comunque non esaurisce il discorso in ottica saggistica ma si limita ad appesantire la recensione stessa (e propriamente detta). Inizieremo così in medias res, lasciando eventualmente che sia il discorso a fare una specie di punto della situazione. Che poi, diciamolo, fare un preambolo del genere per dichiarare che non vi sarà preambolo e dichiarare un in medias res che, una volta dichiarato, non è più, ipso facto, in medias res è una cosa che… vabbè, lasciamo perdere.

Cosa manca a Django Unchained? Ovviamente niente, Django Unchained è il film che è. Però è innegabile che, almeno da un certo punto in poi, tutto proceda troppo straight, in modo poco tarantiniano (Tallarita, Sulla Carta, aveva letto giusto). Quello che rendeva non semplicemente 'belli' ma grandiosi in senso trasversale gli ultimi lavori di Tarantino era un improvviso, inatteso scarto di livello. C'era un momento chiave nell'epopea omicida della Sposa in Kill Bill, un momento nel quale la bi-logia perdeva Epica ma acquistava Etica: Bill che, al momento della resa dei conti con Beatrix Kiddo, derubrica l'avvio dell'impianto vendicativo della quest (il tentato omicidio a sangue freddo della sua ex, per giunta incinta) a un semplice 'ho reagito male'. 'I overreacted', le dice. E sembra sincero. Ecco che se c'era qualcosa di magnifico (e magniloquente) nelle 4 ore di omicidi della Thurman, veniva come disinnescato, sublimato in una svolta insieme grottesca e realistica, una svolta che spingeva lo spettatore a rivedere, spaesato, il proprio posizionamento nei confronti dei personaggi e del film tutto. Stesso posizionamento movimentato e messo in crisi dalla vendetta delle ragazze nei confronti del 'povero' Stuntman Mike di Death Proof, villain sgradevole e meschino se ce n'è uno, ma solo fino al momento della sua morte, per niente liberatoria. Anzi. E cosa dire del finale pazzescamente allostorico di Inglorious Basterds? Hitler, Goebbels e compagnia brutta crivellati di colpi e bruciati in un cinema, vendetta non vendetta che sa di fuga dalla realtà, più che di rivalsa, di confermata (e disperata) sconfitta, più che di inattesa vittoria.

Complicazioni morali e psicologiche, declinate cinematograficamente, che in un certo senso riscatta(va)no - e hanno sempre riscattato, fin dagli esordi - il cinema di Tarantino dal suo spassoso autoerotismo altrimenti troppo puro per risultare davvero autosufficiente. Il che ci porta dritto a Unchained. Che per molti versi è puro Tarantino. Dall'idea iniziale di omaggiare il Sergio minore dello spaghetti (o maccheroni) western in modo obliquo ed esclusivamente nominale (in Unchained c'è poco Django, così come nei Basterds c'era poco Treno Blindato), al citazionismo cinefilo, all'ultraviolenza parossistica, alla verbosità (in)significante. Con vette altissime, cè' da dire. Perché il modo in cui viene smontato e ridicolizzato il Klan degli incappucciati è un cristallino esempio di antirazzismo tarantiniano, tutto giocato sullo sberleffo verbale che non attacca l'avversario ma lo copre semplicemente di parole e di ridicolo autoinflitto. Così come efficaci, ma in massima parte attesi (e già sclerotizzati), i riferimenti più o meno (s)coperti alla/e fonte/i, di tipo linguistico-generale (primi piani, carrellate ottiche), linguistico-particolare (la soggettiva del cocchiere Schultz, con relativi controcampi, appena meno sgrammaticata di quelle di Corbucci), genericamente tematico (il “razzismo”), musicale (copia e incolla dalla colonna sonora), iconico (il fango nella cittadina semi-fantasma) e cameistico [l'inevitabile comparsata di Franco Ne(g?)ro, che in lingua originale parla italiano]. Con, ovviamente, altri rimandi alla cosmologia corbucciana, dal paesaggio innevato de Il Grande Silenzio, con tanto di ragazza di colore da aiutare, alla 'cavalcata senza sella con fucile' di Navajo Joe, passando per i brani morriconiani de I Crudeli.

Ma, si diceva all'inizio, da un certo punto in poi (diciamo dall'arrivo di Django e Schultz a Candieland) il film prende la piega che ti aspetteresti, cioè quella che non ti aspetti, sceglie una corsia preferenziale e prosegue relativamente tranquillo fino al sostanziale happy ending. Con piccole deviazioni (il gesto inconsulto di Schultz, che 'non ha saputo resistere') e alleggerimenti divergenti fuori tempo massimo (il teatrino post-finale inscenato da Django e Hildi) ma senza veri ripensamenti, senza quelle micro-e/rivoluzioni etico-morali in grado, da sole, di mettere in crisi chi guarda/ascolta o di far affiorare una visione del mondo credibile quanto contraddittoria. Qui Sigfrido salva semplicemente la sua Brunilde, tra metafore suggestive ma facili (il sangue dell'aguzzino che macchia il bianco della piantagione di cotone), simboli altrettanto grossolani (l'esplosione di Candieland come iconoclastia antirazzista*) e molte ripartenze (Django Unchained ha troppi finali). Certo, si ride. Per larghi tratti, si gode. Ma non ci si appassiona, se mi si perdona la semplificazione, e sulla poltroncina del cinema si sta un po' troppo comodi.

(*Si pensi, per converso, alla già citata metafora che concludeva Inglorous Basterds, il Cinema che massacra il Terzo Reich, per rendersi conto dello scarto conciliatorio che intercorre tra questo Tarantino e quello).

Postilla sugli attori: Christoph Waltz dà vita a un personaggio riuscitissimo ma un po' troppo invasivo (di fatto, il protagonista è lui), Di Caprio si conferma ineluttabilmente bravo e Samuel L. Jackson è credibile, in senso anche perversamente comico, in un ruolo difficile da molti punti di vista. Meno a fuoco sembra proprio Jamie Foxx, il cui spaesamento e la cui inespressività sembrano spesso preterintenzionali. Viene da chiedersi cosa avrebbe potuto combinare Will Smith, che a quanto pare era la prim(issim)a scelta di Tarantino.

Non poteva mancare, nella rivisitazione dei generi operata da Tarantino, lo spaghetti western: utilizzo esibito dello zoom come andava di moda negli anni settanta, presenza massiccia di Ennio Morricone nella colonna sonora (con un inedito cantato da Elisa) e, ovviamente, Luis Bacalov (la corbucciana “Django” nei titoli di testa). Non siamo dalle parti di Pulp Fiction e Bastardi Senza Gloria, ma di A Prova di Morte: ovvero, omaggio del filone replicato esteticamente (con licenze poetiche) in toto, anziché mix postmoderno di più fonti (generi) in un prodotto inedito. Di unico c’è l’idea di partenza alla Bastardi Senza Gloria, in cui si revisiona la Storia con l’impossibile (come altri voluti anacronismi) rivoluzione dei maltrattati (gli schiavi al posto degli ebrei): l’afroamericano Django (che ha un incontro con suo “padre” Franco Nero, l’originale) diventa cacciatore di taglie e uccide gli odiati bianchi per amore (con una trama simile al serial Spartacus), rivisitando Sigfrido e Brumilda e assicurando alla causa il tedesco Dr Schultz. La perla nell’ostrica è, ancora, il personaggio reso alla perfezione da Christoph Waltz: adorabile gentleman che non perde mai la calma ma è micidiale in azione. La sua uscita di scena è un brano da antologia (e la gag della stretta di mano è fra le migliori di Tarantino). Anche le figure interpretate da Leonardo Di Caprio e Samuel L. Jackson sono fondamentali in un quadro dove, da sole, trama e ideologie motrici sono povere: il primo ha un rapporto ambiguo con i neri, crudele ma curioso sulle “anomalie” genetiche e attratto da chi, fra loro, è indisciplinato. Il secondo, invece, è il classico collaborazionista convinto che finisce per odiare i negri più del padrone bianco. Nel minutaggio esagerato, perché riempito per lo più da ralenti, canzoni estrapolate da altri film e squarci epici, ci sono altri ingredienti “gustosi”, su tutti il fulminante omicidio della sorella del personaggio di Di Caprio alla fine e l’orgia di violenza talmente efferata da annullare il proprio effetto disturbante (il combattimento Mandingo, lo splatter prima di spedire Django in miniera).