Recensione, Western

DJANGO (1966)

NazioneItalia
Anno Produzione1966
Genere
Durata97'

TRAMA

In un villaggio alla frontiera tra Stati Uniti e Messico, conteso dalla banda del Maggiore Jackson e da un manipolo di bandidos messicani, arriva un pistolero nerovestito che trascina dietro di sé una misteriosa bara. Il suo nome è Django.

RECENSIONI

Se c’è poco da discutere sul valore intrinseco e seminale dell’opera di Sergio Leone come iniziatore, e nello stesso tempo nomoteta, di uno dei generi più proficui della cinematografia italiana, occorre altresì ricordare che lo spaghetti western annovera altri due Sergi il cui imprescindibile apporto ha contribuito a fornire coordinate determinanti nella cartografia di questo grande e amatissimo genere: Corbucci e Sollima. La parabola estetica di Sergio Corbucci, infatti, puntellata da un esibito e programmatico cinismo come esigenza di rendere il cinema western una eminente allegoria della condizione umana, con i suoi scenari desolati e notturni popolati da esistenze reiette e soprattutto amorali in senso nietzscheiano, come luogo in cui si consumano vicende sull’orlo di un’apocalisse profana, ha segnato un percorso lastricato di numerose altre opere che proprio nella violenza parafrastica corbucciana hanno trovato un ideale referente per esprimere, in chiave più o meno marcatamente metaforica, tutto quel coacervo di fermenti ideologici che di lì a poco andranno ad esplodere e che però facevano difficoltà ad essere rappresentati attraverso forme cinematografiche altre. Il western, in sostanza, funzionava non soltanto come valvola di sfogo nei confronti dei sentimenti (socio-politici) repressi o controllati ma anche come veicolo di una rinnovata sensibilità artistica che rielaborava (molto spesso pure con grande ingenuità analitica) grazie al registro espressivo del cinema, l’attualità storica, anche quando la superficialità della rappresentazione sembrava prenderne le più recise distanze votandosi all’evasione e al puro intrattenimento. Django funge un po’da segnavia per questo western di matrice decisamente crepuscolare. Leone, lo ripetiamo fino alla nausea, detiene l’enorme merito di aver codificato un genere in tutto e per tutto, dettandone persino ritmi e strutture, ma è Corbucci, forse, ad elaborare un autentico mito della demitizzazione in cui l’eroe (o meglio gli eroi) si pone al di là del bene e del male santificando unicamente la causa del suo utilitaristico interesse (Johnny Oro in questo senso prepara significativamente la strada per Django, e quest’ultimo a sua volta anticiperà il pessimismo cosmico di Il grande silenzio).
Django è una stupefacente meditazione immaginifica sull’uomo della frontiera. Una deriva virata al nero di tutte le storie del West finora conosciute, un ovest innanzitutto di confine, che abita le zone più marginali di un territorio che assume connotazioni più metafisiche che reali. Il confine messicano in tal senso funge topologicamente da luogo incubale per narrare figurativamente il declino di un’umanità (impossibile non riandare alla fervida ombrosità delle scenografie di L’infernale Quinlan wellesiano) priva di valori, che non siano quelli più biecamente materiali. Django è il lugubre, straordinario, cantore (un bardo senza cavallo, quasi impensabile per un western) dell’universo spettrale dipinto da Corbucci, che trascina (in uno degli inizi più formidabili e allucinati del cinema western italiano, e non solo) la sua bara così come, inquietante Caronte, traghetta, usando la sua pistola, e in seguito nell’inatteso coup de théatre la mitragliatrice Gatling (filologicamente scorretta poiché comparve solo agli inizi della Prima Guerra Mondiale) i suoi nemici agli inferi prelevandoli dall’oscurità limbale di quei paesaggi funesti. La meraviglia di Django oltre ai tempi sospesi e dilatati felicemente tormentati da improvvisi crepitii di iperviolenza risiede nell’incanto gotico degli scenari così deliziosamente macabri, una notturnità quasi bavianamente espressionista squarciata dal ghiaccio degli occhi di Franco Nero (film che lo consacrò alle platee nazionali e internazionali) e dal rosso dei corpi, disseminati come figure di un’ineluttabile catastrofe, che sanguinano davvero. Affascinantissimo (come dimenticarcene?) il Django-theme composto da Bacalov-Migliacci e cantato da Rocky Roberts.