TRAMA
Il giovane Kale è agli arresti domiciliari e non sa come passare il tempo. Forse memore di un noto film si mette a spiare il vicinato dalle finestre di casa…
RECENSIONI
Dopo strane macedonie (Salton Sea) e Thriller di anonimia esemplare (Identità violate), D.J Caruso si cimenta col remake non ufficiale di Rear Window. Nientemeno. Omettendo pudicamente qualunque (im)possibile confronto “valoriale” tra i due film, ci preme (ma anche no) sottolineare la tenacia con la quale Caruso ripercorre diligentemente i principali loci del capolavoro hitchcockiano riuscendo a disinnescarli tutti, uno per uno, implacabilmente, fino alle estreme conseguenze. Il primo dato, macroscopico, è quello squisitamente “narrativo”, legato alla storia raccontata (protagonista costretto a una limitata mobilità spia il vicinato dalla finestra) ma non è affatto il più significativo. Comunque sia: in Hitchcock l’immobilità di James Stewart è pressoché totale, il che rende La finestra sul cortile “un film puramente cinematografico” (Alfred Hitchcock), nel quale il protagonista si trova esattamente “nella situazione di uno spettatore che guarda un film” (Francois Truffaut) proprio perché è “in uno stato di impotenza motrice, ridotto a una situazione ottica pura” (Gilles Deleuze); in Disturbia si palesa subito minor rigore: Shia LeBeouf non duplica lo spettatore in sala, la sua “impotenza motrice” è del tutto relativa, non è costretto a starsene seduto davanti allo schermo/finestra e anzi, il suo scorrazzare per casa (e in cortile) frantuma subito tutte le propedeuticità teoriche edificate da Hitchcock. Ma è solo l’inizio. Rear Window tematizzava la tecnologia pseudocinematografica “armando” (letteralmente) la pulsione scopica del protagonista col filtro magnificatore di un teleobiettivo; Caruso si limita ad aggiornare al 2007 l’armamentario riprovisivo (camera digitale, videofonino ecc), moltiplicando i meta-referenti cinematografici ma scordandosi per strada la magnifica chiosa hitchcockiana, nella quale la “macchina fotografica”, ovvio doppio del dispositivo, diventava vera e propria “arma totale”, unica, assoluta e risolutrice (Stewart che acceca col flash il suo assalitore). Disturbia riprende anche la struttura embricata del film di Hitchcock, presentando cioè una sovrapposizione di due film con un romance plot che genera un mystery plot, ma laddove Rear Window esibiva un reparto “commedia sentimentale” assai sofisticato e “audace”, Disturbia annaspa nella più vieta teen comedy americana, con LeBeouf perfettamente a suo agio nella parte dell’imbranato timido e introverso che concupisce la stratofiga di turno (cfr., pari pari, Transformers). Si ricorderà, tra l’altro, che il détour de La finestra sul cortile, la decis(iv)a virata da romance a mystery avveniva dopo circa mezz’ora di film, allorquando il protagonista udiva l’urlo di una donna. Caruso decide di gestire la sua svolta in maniera diversa, “omaggiando” cioè un altro topos hitchcockiano: la diabolica gestione della distribuzione dei saperi. Disturbia (come Rear Window), è quasi tutto giocato sull’aderenza cognitiva spettatore-personaggio (polarizzazione personaggio, per dirla con Gardies) fino a quando l’enunciatore, nel momento in cui la commediola diventa thrillerucolo, non rende partecipe lo spettatore della sua connaturata onniscienza posizionandoci in apparente “vantaggio cognitivo” rispetto al personaggio (LeBeouf e la Roemer sono piacevolmente distratti dal loro pre-petting mentre “noi” vediamo del sangue schizzare sulla finestra del cattivo: polarizzazione spettatore). E anche qui, nonostante tutte le buone intenzioni di Caruso e del suo sceneggiatore, si rivela il pressappochismo di questa rilettura hitchcockiana: anche in Rear Window si creava un’improvvisa discrepanza cognitiva, allorquando James Stewart si addormentava davanti alla finestra prima che lo spettatore potesse vedere il sospettato uscire di casa in compagnia di una donna (la moglie?), se non che, avremmo appreso solo più tardi, si trattava di un depistaggio (la donna non era la moglie, che era in effetti già morta) – ossia – si era passati da una polarizzazione personaggio a una polarizzazione spettatore che però, diabolicamente, si era poi rivelata “truccata”; lo spettatore, cioè, pensava di “saperne di più” del personaggio che invece, addormentandosi, si era perso l’inganno e godeva dunque di un sapere diegetico paradossalmente più completo e attendibile (polarizzazione enunciatore). Tutto questo sottile doppio gioco narrativo è malamente scimmiottato in Disturbia e, di fatto, destituito di efficacia: quando apprendiamo che il sangue schizzato sulle finestre del presunto assassino non era umano ma sangue di cervo, quella che balza all’occhio non è la perizia di un baro che ci ha (piacevolmente) ingannato ma i modi grossolani di un truffatore che non è andato troppo per il sottile pur di ottenere i suoi scopi (perché Turner non ha sezionato l’animale investito nel suo garage invece di portarlo al secondo piano di casa sua, imbrattare tutto di sangue per poi riportarlo, impacchettato, nello stesso garage?). Questo, e altri passaggi “hitchockiani” malamente gestiti al limite dell’indecidibilità diegetica (“ma allora era Turner che era uscito di casa vestito da donna”? ci si chiede nel finale, mentre ricordiamo chiaramente che quella figura non era l’attore David Morse in gonna e parrucca) confermano, oltre ogni ragionevole dubbio, che Disturbia non è figlio di una banale semplificazione hitchcockiana ma di un vero, ben più tragico malinteso.
Prendete l'attore del momento, aggiornate alle odierne tecnologie un classico del cinema, scegliete un titolo suadente, immergete il tutto in un'atmosfera di inquietudine adolescenziale che ammicca alla teen comedy e otterrete il successo del momento. Peccato che lo spunto cinefilo (La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock) sia abbastanza usurato, il titolo centri poco o nulla e la commedia finisca per stringere il racconto fin quasi a soffocarlo. Resta il giovane Shia LaBeouf, che bravo lo è davvero e sulle cui spalle si regge praticamente tutto il film. Riassunto così perniciosamente sembrerebbe da buttare, in realtà Disturbia si lascia vedere piacevolmente, forse proprio perché non ha altre ambizioni che intrattenere. Il merito è anche del regista D.J. Caruso (che pure in un film non riuscito come Identità violate regalava sequenze interessanti). L'incidente iniziale ha un forte impatto e la commistione tra la leggerezza della commedia e le esigenze del thriller raggiunge un equilibrio, precario ma tutto sommato in grado di reggere, che riesce a non annacquare eccessivamente la tensione senza sbracare nella sit-com. Poi i luoghi comuni non mancano: la vicina bellissima, l'orientale informatizzato, il trauma che incombe, qualche coincidenza di troppo e tutta la parte finale che risolve la vicenda con poca plausibilità (perché i cattivi finiscono sempre per annunciare le proprie mosse alle vittime lasciando loro tutto il tempo di uscirne indenni?). Pur facendosi notare, però, i cliché non diventano così ingombranti da inquinare la visione. Forse ciò di cui si sente maggiormente la mancanza è uno sguardo d'insieme davvero convincente, in grado di dare allo spettatore un'idea precisa di come sia possibile per il protagonista vedere così dettagliatamente ciò che gli ruota intorno; così come risulta un po' brusco e meccanico il suo passaggio dall'indolenza della privazione all'interesse per i segreti del vicinato; ma si tratta di ingenuità (la prima forse dovuta ai limiti del budget: 20 milioni di dollari per un film americano sono bazzecole) che non impediscono al film di scivolare senza eccessivi cedimenti. Oltre al già citato LaBeouf, se la cavano egregiamente anche i comprimari, primo fra tutti il sulfureo David Morse che riesce a sfumare il cattivo di turno senza ridurlo a una facile macchietta. Strano, invece, vedere Carrie-Anne Moss, dismessa la tuta in latex della Trinity di Matrix, nei panni extra-large di una qualsiasi "sdaura" di provincia.