Biografico, Recensione

DIETRO I CANDELABRI

Titolo OriginaleBehind the Candelabra
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2013
Durata118'
Sceneggiatura
Trattodai libri di Scott Thorson e Alex Thorleifson

TRAMA

1977. La storia della relazione, segreta al pubblico, tra il famoso pianista Liberace e il più giovane Scott Thorson.

RECENSIONI

Perché proprio Liberace? Perché soffermarsi nel 2013 su una torbida storia d'amore tra il leggendario e variopinto musicista ormai anziano e uno dei suoi ultimi ragazzi, con tutto il suo risaputo corredo di manipolazioni, gelosie, separazioni e quant'altro? Soprattutto per questo: perché siamo a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, e sul sesso e sulle bugie incombono minacciosi i videotape. Liberace fu il primo (o così lui dice) a guardare dritto dentro la telecamera: questo è il punto. L'amore omosessuale dei due protagonisti è infatti solo lo sfondo: in primo piano, come già in Magic Mike, c'è il Pubblico chiamato a salire in scena e a partecipare della parabola dello Spettacolo, già in fase discendente, fino a compiuta consumazione. L'amore omosessuale, in altre parole, è qui una maniera per ribadire che le dinamiche del mondo mediatico di oggi, quello in cui il cinema è in posizione solo periferica e che esigeuno spettatore attivo e partecipe, si riducono essenzialmente a una questione di specchi. Ben prima che la madre di Liberace ce lo confermasse rivelando che il figlio aveva un gemello morto alla nascita, di dubbi ne vengono lasciati ben pochi: il musicista e l'amante sono due lati dello specchio che fanno a gara ad imitarsi l'un l'altro (magari a colpi di chirurgia plastica). Lo Spettacolo, in senso lato, oggi è questo: lo spettatore viene risucchiato al di qua dello schermo (di ogni schermo) e variamente invitato a condurre lui le redini del gioco. Il valore del film è quello di dimostrarci, o di ricordarci, che questa dinamica all'apparenza così contemporanea, è in realtà già finita, esaurita, passata. Soderbergh traccia con freddezza e lucidità impressionanti la parabola di quella che potremmo (ancora) chiamare la “società dello spettacolo” sottolineando il fatto che ormai ne siamo fuori e che dobbiamo innanzitutto renderci conto che la macchina mediatico-spettacolare ci ha già intercettati, usati e risputati fuori, come già il protagonista di Magic Mike. Oggi siamo nel deserto, e dobbiamo guardarci allo specchio da soli (o trovare un'immagine allo specchio diversa da quella da prima). Tutto ciò Soderbergh lo guarda (e ce lo fa guardare) con siderale distacco; un distacco non solo retrospettivo, ma letteralmente funereo. Non è solo in questione la nitidezza spietata, da manuale davvero, con cui la parabola ci viene tracciata davanti agli occhi, ma soprattutto l'abilità con cui da un lato ci viene offerta una debordante fascinazione per il lusso, con le sue infinite luccicanze (la fotografia, del regista stesso sotto pseudonimo, è al solito straordinaria) e i suoi lustrini, e dall'altro invece ne veniamo respinti in virtù di un rigoroso senso della distanza (critica?). La precisione della regia è qui la precisione con cui si seziona un cadavere: quello dello Spettacolo, un corpo che ormai è irrimediabilmente estraneo al nostro, e non ci rimane che prenderne coscienza.

Era pensata per il cinema ma è stata prodotta dalla emittente televisiva via cavo HBO, maggiormente disposta a finanziare la messinscena di un controverso rapporto omosessuale dove l’ego spropositato dell’uno fagocita, culla e protegge quello dell’altro. L’opera, però, adattamento della biografia di Scott Thorson (incentrata sui sei anni passati con Liberace), ha avuto la sua rivincita entrando in concorso al Festival di Cannes e venendo distribuita in sala in Europa. In questo caso, le amate anomalie estetiche Soderbergh le rinviene nel soggetto: con l’aiuto del talentuoso Richard La Gravanese alla sceneggiatura, massimo esperto di racconti sentimentali non banali, sta alla larga sia dal film “gay pride”, sia dal film sul “personaggio” Liberace (o, per contrapposizione, sulla sua “vittima” Scott: entrambi colmi di ombre e luci). Sfuggente come sempre, il regista parrebbe interessato, allora, alla componente “civile” del racconto, al matrimonio di fatto che dovrebbe essere tutelato dalla Legge: ma disattende anche questo focus di fronte alla riappacificazione fra i due amanti e allo sprazzo surreale al funerale, che santifica tutto e tutti. Come il precedente Effetti Collaterali, il suo film è e non è tante cose: la sua sperimentazione s’adopera a disattendere le aspettative, le traiettorie “date” del racconto, il perseguimento di un tema. Apparecchia comunque la tavola con mestiere, sposando la sobrietà e riuscendo, miracolosamente, a entrare nell’intimità di una coppia omosessuale, senza scandalismi o secondi fini, saltando, con tatto, dal dramma al sentimento alla commedia, mentre il palatial kitsch degli arredamenti amati da Liberace distrae lo sguardo e distraggono l’udito i candelabri sul pianoforte (rubati, da Liberace, a L’Eterna Armonia di Charles Vidor). Soprattutto, permette ai due protagonisti (anche se oltremodo anziani per le parti) prove superlative (Douglas gigantesco), senza dimenticare un Dan Aykroyd irriconoscibile e uno spassoso Rob Lowe.