TRAMA
È l’inverno del 1999. Un vaporetto attraversa la laguna di Venezia. Camilla, diciottenne schiva, appena arrivata dal paese per studiare letteratura russa, nota tra la folla un ragazzo. Anche lui porta con sé una valigia, anche lui è appena arrivato. I due iniziano a guardarsi: lei è timida, lui più sfacciato. Silvestro ha la stessa età di Camilla, ma diversamente da lei, nasconde la sua inesperienza dietro un’ingenua spavalderia. E quando il vaporetto attracca, decide di seguire la ragazza per le calli nebbiose di un’isola della laguna… Così comincia un’avventura lunga dieci anni che porterà i due ragazzi dalla Venezia quotidiana degli studenti fino alla straniante frenesia di Mosca, con i suoi teatri e le enormi strade trafficate.
RECENSIONI
Dipanandosi tra il novembre 1999 e il marzo 2009 con cadenza stagionale, Dieci inverni squaderna in una decina di pannelli dalla durata variabile la vicenda amorosa di Camilla (Isabella Ragonese) e Silvestro (Michele Riondino), ragazzi stranieri a se stessi e al luogo in cui le loro esistenze si incontrano casualmente. Diversamente da quanto riferiscono le recensioni teleologiche (quelle che interpretano l’intero film esclusivamente alla luce del finale), Valerio Mieli non mette in scena la contrastata formazione di una coppia nell’arco di un decennio, ma, più precisamente e sottilmente, la sua incompiutezza, la sua discontinuità.
Di fatto nel primo frammento (novembre 1999) Camilla e Silvestro sono già in simbiosi: si notano, si piacciono, dormono nello stesso letto (seppur castamente) e mettono in atto palesi dinamiche di coppia (lei che gli porta il caffè, lui che la mette alla prova facendo finta di niente). La pellicola segue discretamente le loro separazioni e i loro riavvicinamenti, il loro perdersi e ritrovarsi, le divergenze di un sentimento già contenuto allo stato embrionale nel primo contatto: quello che conta (ciò che il film racconta nel suo svolgimento) è proprio questo continuo sfilacciarsi e riallacciarsi di un’emozione percepita e comunicata fin dall’inizio. Il tragitto, in una parola, è più importante dell’arrivo.
Tra intermittenze di tenore ozoniano (l’impaginazione riveduta e corretta di 5 x 2), atmosfere di stampo rohmeriano (lo sfondo climatico dei Racconti delle quattro stagioni) e motivi di matrice gondryana (la carezzevole musicalità di Eternal Sunshine of the Spotless Mind), Dieci inverni procede con andatura lieve e trasognata, inanellando soprattutto nella prima parte (fino a febbraio 2004) svelti quadretti narrativi in cui i due protagonisti si incrociano a più riprese in una Venezia complice e incurante al tempo stesso (la fotografia di Marco Onorato allontana ogni effetto oleografico, ritraendo i personaggi in spazi quasi deserti o mettendo in secondo piano i monumenti più riconoscibili).
Rielaborando la sua sceneggiatura originale (finalista al Premio Solinas 2007) insieme a Isabella Aguilar e Davide Lantieri, Valerio Mieli (classe 1978) raggiunge l’equilibrio nella caratterizzazione dei protagonisti senza parteggiare per l’uno o per l’altra e limitandosi a tratteggiare sommariamente il loro retroterra (il rapporto tra Camilla e il padre, la carriera di Silvestro). Evidente frutto di scelta e non limite di scrittura, questa sommarietà contribuisce a isolare la loro vicenda, facendola vivere esclusivamente nella dimensione sentimentale e geografica in cui è incastonata (non solo Venezia e la laguna, ma anche Mosca e una breve sortita nella campagna veneta). Ne scaturiscono tonalità vagamente astratte che la dicono lunga su quanto sarebbe fuorviante ricondurre Dieci inverni ai precetti della verosimiglianza e della plausibilità, la sua ragion d’essere risiedendo principalmente nella composizione d’insieme.
Laddove il film di Mieli mostra la corda è invece nei momenti in cui si incaponisce nel testa a testa: i dialoghi si inceppano spesso e volentieri nella stereotipia linguistica (l’esasperante ripetizione della parola “problema”) e i toni si inacidiscono nel rinfaccio un po’ rancido (il “vaffanculo” rimpallato tra Camilla e Silvestro). Anche i simbolismi, per quanto messi in sordina, alla lunga sbandano nel didascalico: le lumache come correlativo della lentezza di Silvestro a manifestare il suo sentimento, il nome della bambina di Camilla (Costanza) quale esortazione a perseverare, l’ultimo atto che si svolge nel mese di marzo con la pianta di fico carica di frutti...
Abile nel giostrare le soggettive (utilizzate non in chiave banalmente drammatica ma in funzione esplorativa) e forte di un cristallino sonoro in presa diretta (Guido Spizzico, Sergei Bubenko), Dieci inverni può infine vantare un vero e proprio cortometraggio nel film: il penultimo segmento (gennaio 2008), di brevissima durata e privo di dialoghi, descrive con toccante misura stilistica l’ennesimo mancarsi di Silvestro e Camilla in un campo veneziano, con un frate appesantito a fare da ansimante trait d’union. Una preziosa lezione di regia. Osservazione conclusiva: siamo così sicuri che il finale sia un autentico happy end? Il movimento di macchina all’indietro che chiude il film non getta forse sull’inquadratura (e sul futuro dei due) l’ombra del dubbio? Presentato al 66° Festival di Venezia nella sezione Controcampo italiano.
Dieci inverni racconta la lenta e probabile genesi di un amore. E lo fa con una struttura ellittica che sottrae snodi della storia per offrirne le conseguenze, esaltando il non detto, gli spazi fuori campo di crescita personale e la silenziosa paura della parola “amore” (e del suo significato). Gli squarci invernali attraverso i quali viene narrata l’equivoca amicizia tra Camilla e Silvestro hanno come teatro una Venezia studentesca, quotidiana, anche sporca (e il suo contraltare è una Mosca metropolitana, intellettuale, operosa), e una casa lagunare scalcinata e bohémienne che si riempie e si svuota, si raffredda e si scalda col passare degli anni e con l’evolversi della relazione dei suoi abitanti. Le condizioni climatiche si legano a doppio filo alla geografia amorosa: l’inverno come attesa e custodia di germogli futuri, il dedalo liquido delle silenziose calli veneziane che disegna una mappa di possibilità e occasioni perdute. Mieli punta forse più sull’atmosfera che sulla regia, corretta e molto (troppo?) discreta, evitando i virtuosismi con cui Tavarelli aveva anni fa raccontato l’analogo Un amore (film che curiosamente si conclude nel 1999, quando inizia questo), e riscatta l’esilità (giusta) della storia con mezzi toni sinceri. La banalità non diventa quasi mai modestia narrativa ma dato tangibile e familiare (e a questo molto contribuisce la freschezza recitativa dei due protagonisti). Incuriosisce semmai come in Italia l’indipendenza femminile sia un traguardo che si debba sempre pagare con la depressione e il crollo psichico (il momento narrativo più debole). Storia di avvicinamenti e lontananze, in Dieci inverni Camilla e Silvestro imparano col tempo a trovare la giusta distanza, spaziale ed emotiva, dalla quale guardarsi e capirsi: la vicinanza finalmente raggiunta più che un happy end è l’inizio provvisoriamente lieto di una storia che possiamo solo immaginare.