
TRAMA
Dopo aver lasciato Palermo per Londra, il diciannovenne Leonardo Gravina decide di trasferirsi a Siena per studiare letteratura.
RECENSIONI
«Nessuno ci ha mai detto come si piange alla nostra età»
Vertebre, Settembre
Che il racconto dell’adolescenza sia diventato uno dei terreni più frequentati dall’audiovisivo è quasi banale dirlo. In Italia Ludovico Bessegato ne è diventato cantore indiscusso con le serie capolavoro Skam (remake - migliorato - di una webserie norvegese) e Prisma, in cui la condizione depressiva della gioventù odierna - che è culturale, e si lega alla morte del futuro - trova ideale espressione. Ma, al di là di ciò che sostanzia il tormento delle nuove generazioni, quello dei diciannove anni è da sempre uno snodo esistenziale: la fine della scuola superiore segna una delle tappe fondamentali della vita, quella delle scelte che possono decidere di un destino, scelte che si fanno in un’età in cui si è ancora immaturi, impreparati, certi-ma-incerti di cosa si è, decisi-ma-indecisi sulla strada da intraprendere. Tortorici sa calarsi nel magma di questa confusione, riuscendo a renderne le titubanze, gli slanci, gli estremismi e le rigidità. Il suo è innanzitutto un saggio di scrittura cinematografica, perché, lungi da una drammaturgia tradizionale retta da un arco narrativo visibile, congegna il film avvicinando frammenti, situazioni, dettagli, vignette fulminee. Costruendola tessera dopo tessera, come un puzzle sensoriale, il regista compone per accumulo la storia di un percorso di vita accidentato e lo fa senza indulgere nell’ossequio delle tappe narrative tipiche del racconto di formazione. Ponendo al centro del film uno stato d’animo – i dolori e le nevrosi del giovane Leonardo (Manfredi Marini, una specie di Lou Castel 2.0) – riesce a tradurlo in un linguaggio visivo freschissimo che - tra ammicchi disinvolti alla nouvelle vague (Truffaut, soprattutto), inserti dipinti, scritte a tutto schermo, sgrammaticature vintage (gli zoom) - dice, figurativamente, dell’impaccio e della inadeguatezza del protagonista a vivere hic et nunc la propria gioventù. Dalla partenza dalla natia Palermo al tentativo subito abortito di stabilirsi a Londra, fino all’impulso a iscriversi all’ateneo di Siena per studiare quella letteratura italiana che è passione e ossessione, Leonardo e i suoi pezzi di diario raccontano - con una verità a tratti straziante, a tratti leggera fino al comico – dell’impigliarsi nelle maglie del sistema universitario e dell’incomprensione del corpo docente; del gap generazionale: in un verso, gli anziani, e nell’altro, i ragazzini, ché le generazioni si accorciano; di un’immagine e un ideale di bellezza cui tendere, mutevoli e inafferrabili a un tempo; del bisogno di ancorarsi a una morale - quella morale a cui gli adulti, cresciuti nella cultura dell’egoismo, hanno rinunciato - in un tempo che non ti dà appigli e sembra scivolarti tra le dita.
E poi di un’idiozia romantica legata a filo doppio a un’incertezza sessuale che, dalla realtà, si rifrange nella rete, e viceversa. Un motivo che innerva l’intero film e che, vivaddio, non viene mai spiegato o tematizzato e che però, tra le righe, rivela molto del nostro tempo, di un concetto d’amore fatto di esaltato contatto con il sé prima che con l’altro, di un sentimento che, nella stessa egotica ottica, consuma immagini e idealizzazioni (senza connotazioni sessuali specifiche, non a caso). Di Leonardo, in definitiva, come campione dell’attuale, inevitabile narcisismo, di un autocompiacimento che - nello strumentalizzare l’afflato amoroso per la celebrazione del proprio io - si scontra inevitabilmente con il dolore e la frustrazione della propria insufficienza. Se vi pare poco.
