TRAMA
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In un bar di Santiago due uomini anziani parlano come se fossero già morti.
RECENSIONI
Dìas de campo è una pellicola importante per il prolifico Ruiz, dato che rappresenta il suo ritorno in terra cilena dopo decenni (era il 1973 quando la lasciò), un ritorno felice, segnato da un’opera delicata nella quale si rinvengono senza fatica tutti i nodi fondamentali della sua poetica. Ciò che i due vecchi rievocano al tavolino del bar è davvero il passato? Il personaggio di cui si racconta non è piuttosto il narratore? Questi due uomini che discutono nel locale La Parrocchia non sono forse i personaggi di un romanzo che parla di due persone al bar che rievocano un passato immaginario che è, invece, in tutta evidenza, il presente reale? E uno dei due non è proprio lo scrittore immaginista dalla cui penna essi provengono (La Parrocchia è il locale del futuro)? Bastano questi interrogativi retorici per comprendere come l’adattamento che Ruiz ha fatto dei vari racconti di Federico Gana costituisca l’ennesima occasione per il grande autore di esporre i suoi bizzarri teoremi sul tempo, il racconto e il sogno (nei suoi film sembra che la morte non esista e che, di contro, si proponga sempre un’altra vita) e per mescolare ad arte i vari piani, senza mollare mai la presa della coerenza, ma non perdendo un’oncia di suggestione: lascia dunque andare a briglia sciolta il suo estro (la sfilata dei fiammiferi, geniale) e la sua camera (i consueti, impagabili carrelli con gli oggetti che si muovono in sincrono; lo sguardo che si insinua nella grana della carta...) confondendo lo spettatore in una fitta rete di (im)possibili percorsi narrativi. Legato a filo doppio al suo recente Une place parmi les vivants, Dìas de campo è l’opera di un poeta dell’immagine che non rinuncia alle sue ossessioni e continua a fare un cinema povero solo di mezzi. Irrinunciabile

Laspetto più interessante del lungometraggio del cileno Raoul Ruiz è la dimensione in cui si muovono i personaggi: sfiora il sogno, accarezza i ricordi, vive di immaginazione, ma è soprattutto un luogo squisitamente filmico, lontano da spazi e tempi razionali, che trova ragione di esistere solo sullo schermo. In questo universo, volutamente privo di certezze, i personaggi fanno quello che possono per sopravvivere alle esigenze narrative e si abbandonano con consapevolezza alla volontà dellonnisciente autore. Non facile, in parallelo, per lo spettatore seguire il tortuoso cammino che ne deriva. Da un lato si prova una sorta di ammirazione per la totale libertà che si respira nella sceneggiatura, per il rigore della messa in scena e per il gusto pittorico dei giochi di luce. Dallaltro, però, si fatica a mantenere costante linteresse nei confronti dei personaggi, ad appassionarsi alle virate surreali, a cogliere lironia sottesa al progetto senza confonderla con un greve umorismo, a sopravvivere alla patina intellettuale che rischia di creare una distanza incolmabile. Il sottile gioco di Ruiz, tutto di testa e mai di pancia, lungi dal divertire e senza impensierire troppo, finisce così per perdere qualsiasi leggerezza, restando ancorato a una cerebralità poco comunicativa.
