TRAMA
24 Ottobre, ore 23. Otto studenti universitari (Jason, Tony, Tracy, Gordo, Eliot, Mary, Ridley e Francis) ed un professore alcolizzato (Maxwell) stanno girando una sequenza di un corto didattico ambientato in un bosco (un horror in cui una mummia insegue una ragazza terrorizzata). Improvvisamente un notiziario radiofonico riferisce un fatto sconvolgente: i morti stanno tornando in vita, aggredendo chiunque sia a portata di morso. Terrorizzati, i ragazzi si precipitano al dormitorio femminile del campus per recuperare Debra, la fidanzata di Jason (il regista del corto), e dirigersi verso le rispettive case. Durante il viaggio in camper a Jason viene in mente di riprendere il tutto con la videocamera: il risultato sarà “The Death of the Death”, videocronaca di tre giorni apocalittici.
RECENSIONI
È il solito ruvido, irriducibile apologo politico sotto forma di horror il quinto capitolo della saga dei morti viventi di George A. Romero. Assemblato con frammenti dell’iconosfera contemporanea (due videocamere Panasonic, telecamere di sorveglianza, file mpeg, riprese di videofonini…), Diary of the Dead porta alle estreme conseguenze la riflessione sociale già sviluppata nelle opere precedenti, postulando tuttavia un punto di vista e un pericolo rigorosamente interni. Sguardo rasoterra, Romero filma “dal di dentro” il palesarsi di un nemico infiltrato: veicolo dell’infezione sono i clandestini, individui senza identità intrufolatisi di nascosto nel territorio americano. È questa la paura primaria di Diary of the Dead: un terrore che si manifesta quando è già penetrato all’interno delle mura domestiche. L’esterno non spaventa più, l’insidia davvero allarmante è quella che risiede già dentro. Non c’è più la classica logica dell’accerchiamento, al suo posto troviamo l’angoscia permanente di un nemico già strisciato dentro, già insediato: alla tensione dell’assedio si è sostituita la fobia dell’invasione. Ecco allora che, cinematograficamente, gli interni si trasformano in luoghi infestati, spazi che non difendono più e che al contrario generano mostri. Ospedali, stalle, scantinati, case munite di allarme, ville-bunker: più gli ambienti sono chiusi e potenzialmente protetti più nascondono insidie letali (“Non ce la faccio più ad andare avanti così, ogni volta che entriamo da qualche parte qualcuno muore”, sbotta esasperata la texana Tracy). E, se non bastasse, lo spazio esterno è ulteriormente obnubilato da schegge impazzite di informazione che interferiscono, si sovrappongono, si annullano reciprocamente in un brusio indistinto che tende al rumore. La tecnologia collassa su se stessa, regge soltanto la rete (hacker, blogger): un’informazione orizzontale che non garantisce né continuità né attendibilità, ma che si affida alla responsabilità dei singoli (ed è palese che questa libertà responsabile a Romero vada particolarmente a genio). Il discorso è chiaro, la fuga di questi ragazzi e del professore nichi/etilista esorcizza, irridendola, la paura della clandestinità distruttiva (leggi “terrorismo”). L’irrazionale run for cover decima ironicamente il gruppo di fuggiaschi (tutti esemplarmente caratterizzati dal punto di vista psicologico e comportamentale), impregnandosi di tinte paranoiche (la cinica dietrologia di Tony) o regressive (Maxwell preferisce arco e frecce alla pistola), quando non apertamente suicide (lo scriteriato gesto di Mary). Chi resta in vita ha il compito di portare a termine - montandolo sul laptop, aggiungendo musiche sinistre e corredandolo di un commento verbale di sconsolata amarezza - il film voluto da Jason: Death of the Death, un film a suo modo didattico (in fondo non troppo dissimile dal corto che i ragazzi stavano girando nel bosco).
Terzo (non in ordine cronologico né di produzione) combat horror della stagione 2007/08 accanto a [REC] di Paco Plaza e Jaume Balaguerò e Cloverfield di Matt Reeves, il film di Romero si colloca esattamente tra i due. Se il primo utilizza l’impronta real tv al solo scopo di innalzare il potenziale ansiogeno della rappresentazione e il secondo articola una riflessione teorica sull’invasività dei private media in chiave allegorica, Diary of the Dead combina entrambe le tattiche: immergendosi nella finzione con le due videocamere, accresce notevolmente la tensione drammatica della cronaca (alleggerita comunque da gustose parentesi grottesche) e giustapponendo alle immagini una voce over che stigmatizza morbosità voyeuristiche e degenerazioni sadiche, esplicita il significato istruttivo del film (non manipolare le informazioni da una parte e spaventare gli spettatori affinché non commettano gli stessi errori dall’altra). Ma, paradossalmente, è proprio questa enunciazione categorica e zelante a depotenziare Diary of the Dead: l’illustrazione didascalica delle intenzioni finisce per incanalare il film verso una generica rassegnazione, smorzandone forza d’urto e incisività critica. Risultato: una pellicola veemente nella messa in scena ma ridotta nella portata eversiva. Panico semplificato.