TRAMA
New York: il gioielliere scommettitore incallito Howard Retner entra in possesso di un opale nero che vuole vendere all’asta, così da poter saldare i suoi debiti.
RECENSIONI
Dopo Good Time, i fratelli Safdie tornano a organizzare il caos, ad amalgamare il disomogeneo, a creare tensione senza tensione, come se l’accumulo di suspense fosse un effetto collaterale, involontario e quasi imprevisto. Non sembra esserci niente di scritto, in Diamanti Grezzi, eppure, per vie traverse e caotiche, gli ingranaggi trovano i loro incastri e conducono il film verso un finale a orologeria, molto ben orchestrato e congegnato. Lo fanno in mezzo a dialoghi che si accavallano, con una regia nervosa fatta di focali lunghe, totali negati, macchina a mano, montaggio da nouvelle vague, grana anni ’70 e personaggi accennati o abbozzati che, però, riescono a suggerire profondità, ipotesi, mondi spesso inattesi (il milionario marpione del finale, teoricamente viscido ma inaspettatamente corretto, positivo, “buono”).
Quello dei Safdie è un cinema a suo modo misterioso, fatto di contrasti e ossimori, sospeso tra il realismo e l’iperrealismo trasfigurante. Si veda, ad esempio, l’utilizzo che viene fatto della ex star della NBA Kevin Garnett: interpreta se stesso ma il suo personaggio non viene ingabbiato dalla propria fama, i suoi comportamenti non irreprensibili da riccone viziato, le sue dubbie frequentazioni, sono probabilmente realistici ma forse non è realistico che venga cinematografato (e che si sia fatto cinematografare) così. Nello spettatore si innesca una specie di corto circuito, complementare a quel gentile stordimento che lo accompagna mentre segue le vicende di Mr. Self Destruct Howard Ratner: empatia o compassione? Tifo o indifferenza (o peggio)?
Dopo l’altrettanto ansiogeno, ancora più free, forse meno centrato ma (quindi?) più riuscito Good Time, i fratelli Safdie ci regalano un diamante grezzo solo in apparenza, tagliato alla perfezione, in cui avventurarsi per affrontare deviazioni e sorprese - subito all’inizio, la mdp ci accompagna in un opale nero e ci ritroviamo in un colon - ma che sa ricompensare chi accetta le regole di un gioco un po’ destabilizzante: alla fine, la stessa mdp ripercorre il film, portandoci in mezzo alla carne martoriata di un foro di proiettile, poi nell’affascinante disordine interno di una gemma per poi uscire a contemplare l’imperfetta compostezza di un cielo stellato.
Un’ultima parola sulle musiche. Continua la collaborazione con Daniel Lopatin ma cambiano registro e intenzione: nel film precedente, a firma Oneohtrix Point Never, si trattava di uno score pulsante e percussivo (seppur povero di percussioni) al limite dell’invadente, che spesso trasformava il film in un lungo videoclip ipnagogico, qui il genietto di Brooklyn, che ci mette nome e cognome, realizza musiche più distanti, liquide e rarefatte, di sapore new age, con echi dei Tangerine Dream ed escursioni timbriche nei territori di Vangelis.
