Drammatico, Recensione

DENTI (2000)

TRAMA

Antonio ha sempre avuto problemi con i suoi incisivi: enormi, impossibili da nascondere, imbarazzanti. La scintilla che lo porterà per tre giorni in un viaggio psichedelico e surreale da un dentista all’altro, sarà la sua fidanzata Mara, che lanciandogli un portacenere gli rompe entrambi gli incisivi.

RECENSIONI

Si deve riconoscere a Gabriele Salvatores la capacità di rinnovarsi, nello stile e nelle storie raccontate. Viene spesso accusato dai suoi detrattori di affrontare tematiche interessanti e attuali in modo superficiale e modaiolo, e forse qualche cosa di vero c'è. Ma è anche vero che in un panorama italiano dove si osa poco, sia a livello narrativo che visivo, Salvatores ha il merito di confezionare in modo impeccabile e molto glamour una storia fastidiosa e disturbante, che non lascia certo indifferenti. Il film è un lungo viaggio nell'inconscio di Antonio (un Sergio Rubini più bravo e convincente del solito) per rimuovere, o comunque superare, una serie di traumi che trovano sfogo in una terribile dentatura. Il film, impacchettato come un incalzante video-clip, è ricco di spunti, non tutti approfonditi, ma l'insieme risulta originale e mantiene per l'intera durata il difficile equilibrio tra un livello primario, in cui si racconta una storia, ed uno secondario, più sottile ed insinuante, dove l'inconscio prende forma e diventa immagine, permettendo a paure e pulsioni di uscire allo scoperto. Gli incontri con il fantasma materno, provocano la stessa irritazione degli intermezzi della Seigner in "Nirvana" (sarà per la erre moscia), ed anche questa volta il regista riesce a dare risalto ad un personaggio femminile non banale, ben interpretato dalla graziosa Anita Caprioli, una Cucinotta meno verace e più espressiva.

Quanta voglia di esser-ci, di mostrarsi, di dire "guardatemi al lavoro: sono o non sono un Regista?" Cosa rara per il cinema italiano, ne convengo, ed è forse questo che può rendere la bocca più buona del dovuto/voluto inducendo a parlar bene dell'ultimo Salvatores e del suo (presunto) coraggio. Ebbene no, non ci siamo, "Denti" è invece un "film senza ombra", un involontario "niente" vestito a festa. PARTE I- "il niente sotto il vestito"--- Il guaio non è tanto che, banalmente, il film è (vorrebbe forse essere) un trip onirico dentro le ossessioni umane, un'esperienza visivo-sonora non necessariamente sensata; se "Denti" fosse stato questo sarebbe stato largamente più digeribile: un programmat(ic)o vuoto virtualmente polisenso in cui il "messaggio" diventa il medium (il film "in sé"), o meglio, ciò che ciascuno vede nel medium; un particolare tipo di cinema-cinema, dunque, o di cinema per il cinema, con illustri precedenti. Qui irrompe invece il maggior difetto di "denti", ossia la ridondante voce fuori campo che (pseudo)filosofeggia sulla vita, la morte, la ri-nascita, l'amore, annientando di fatto ogni ambiguità di significato e indirizzando il tutto sui tranquilli binari di una per giunta banale monosemia…perché illustrare, dire, spiegare tutto? C'era davvero bisogno di chiarire a parole il (già troppo chiaro) significato della "terza dentatura"? Non solo. Cosa hanno da dirmi verità rivelate del tipo: "il bisogno d'amore ci fa soffrire?" davvero niente…un gran brutto tipo di "niente".
PARTE II- "il vestito sopra il niente"---La prima cosa che viene da dire è che il film è comunque "ben girato". Ora, tralasciando il fatto che la constatazione in sé è penosa (un po' come dire dei pessimi Dream Theater: "…però sanno suonare"), dal punto di vista stilistico, della forza visiva del "mostrato" e del "come" lo si mostra, si verifica una sorta di paradosso: la ricerca esasperata di personalità si traduce in omologante spersonalizzazione. Salvatores si lascia prendere la mano da spericolati movimenti di macchina e da inquadrature impossibili, indugia su gengive carnose e sanguinanti, mostra attrezzi odontoiatrici "mostruosi", filma poco convincenti discese agli inferi senza accorgersi di quanto risulti "derivat(iv)o" e in definitiva poco (punto?) originale. In ogni fotogramma, infatti, sembrano far capolino ora Lynch, ora Cronenberg, ora Fincher, ora Boyle, ora il Lyne di "Jacob's ladder" e chi più ne ha più ne metta…nessuna ossessione genuina, nessun "disturbo" che non evochi un noioso deja-vu… i soli momenti emotivamente intensi sono causati da grossolani espedienti splatter come un dente strappato o uno schizzo di denso e rosso sangue su un'asettica parete bianca. Se questa è l'italian way per sentirsi (e per riuscire a "farsi sentire") Autore non c'è da stare allegri…

Quest'opera, all'apparenza così poco "italiana" nella sfrenata ambizione formale e contenutistica, presenta interessanti punti di contatto con il premiatissimo esordio di Sam Mendes. Lester, pubblicitario frustrato da un lavoro avvilente, oppresso da una moglie castrante e colpevolizzato da una figlia rancorosa, è in "bancarotta spirituale" esattamente come Antonio, professore di filosofia che convive con l'amante per cui ha lasciato moglie e figli (e da qui, rimorsi a valanga) ed è assediato dai fantasmi della sua infanzia (la madre, lo zio, il dentista); e identica è la "passione", in senso evangelico, dei due personaggi, che attraverso il dolore (le sedute dentistiche, l'allenamento con i pesi) e la metamorfosi del corpo (la terza dentizione, la "riscoperta fisica") giungono ad una sorta di liberazione, di palingenesi spirituale, risolta nella contemplazione della bellezza panica (la rosa, il sole). Ma mentre "American Beauty" è un film politico, quasi di denuncia, "Denti" è piuttosto un'opera privata, intima (ed a ragione Salvatores dichiara che è "il più indifeso" dei suoi lavori). "American Beauty" è un atto di accusa, per quanto ammiccante e non del tutto sincero, nei confronti di un modello di comportamento standardizzato, diffuso in una società come quella nordamericana, basata sui "miti" del successo, della famiglia, della disciplina, delle relazioni eterosessuali, contraddetti nel film da una ribellione che è insieme ritorno all'incoscienza infantile e raggiungimento di una tardiva maturità ed indipendenza intellettuale: nucleo del film non è l'avventura di un solo uomo (Lester), ma di un'intera comunità (la figlia, il giovane vicino di casa, persino il marine). Tutti questi personaggi, più o meno volontariamente, infrangono gli schemi per affermare quello slancio vitale che un'intera esistenza di valori fasulli non ha saputo spegnere. "Denti" è una vera e propria seduta psicanalitica, la storia di un tentativo (riuscito) di superare il complesso di Edipo e dire addio ad una parte della vita (l'infanzia) che ci seduce nel ricordo e allo stesso tempo ci intrappola in una condizione umiliante (rappresentata dalle immense "zanne" di Antonio): solo la forza devastante, "brutale" dell'amore adulto (Mara) può farci uscire da questo dolcissimo incubo. Ma non esiste una "ricetta" per superare le proprie paure; ognuno deve agire da solo, perché tutti, in fondo, siamo come Antonio alla fine del film: soli al sole. Alla levigata perfezione dell'opera americana, Salvatores contrappone un viaggio psichedelico un po' ingenuo e rozzo, ma infinitamente più personale e (paradosso?) coinvolgente.