Fantascienza, Recensione

DARK CITY

Titolo OriginaleDark City
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1998
Durata106'

TRAMA

Una razza aliena s’impadronisce della città rubando i ricordi della popolazione e innestandone di nuovi. Solo un uomo è immune al loro controllo.

RECENSIONI

L’horror incubale e futuribile di Proyas denuncia la precarietà di esistenza ed identità, così legate al senso del Tempo e alle cellule della memoria, e dimostra che la pura essenza umana, l’anima generata dal Cuore, non è manipolabile dall’esterno (non a caso gli alieni si chiamano Mr. Hand, Mr. Book, Mr. Sleep), ma supera l’illusorietà della realtà, oltre il cui muro può esistere solo l’Infinito o il Nulla. Le metafore raccontano del pericolo della soppressione dell’individualità in favore di una mente collettiva omologata e priva di emozioni (di ricordi), sottolineando che la vera “investigazione” (William Hurt) mette in discussione anche se stessa. Forma e sostanza si specchiano: la pellicola vive della passione del regista, di quell’“anima” che può garantire l’immortalità tanto vanamente ricercata dagli alieni nel racconto; l’universo barocco immaginato deborda di citazioni non gratuite ma in parallelo con la collezione di memorie umane degli alieni. Un puzzle che è un appassionante giallo kafkiano, alla Philip K. Dick con modi chandleriani (Blade Runner), gocce di Burroughs e anamnesi cinematografiche. Con la scusa del Tempo che si ferma e confonde le epoche, la Dark City ha un memorabile décor anni trenta/quaranta, sapori noir, gocce di Metropolis e della burtoniana Gotham City (i neri grattacieli…). I villain evocano Nosferatu ed Hellraiser, le loro macchine gli strumenti di tortura di Brazil e Delitti e Segreti, l’epico scontro finale parte da I Maghi del Terrore di Corman per arrivare a Scanners, Sutherland è Il Gobbo di Notre Dame e Proyas cita Nightmare quando il bambino fa stridere le lame contro il muro. Tal crogiolo è avvolto in un notturno metropolitano cupo e tenebroso, in magrittiane tonalità dominanti, in inquadrature/montaggio/messinscena che tendono al gigantismo wellesiano fra plongée abissali, angolazioni dal basso e una stilizzatissima creatività iconografica. Se la soluzione finale avesse visto Rufus Sewell diventare come i suoi aguzzini (in ragione di questo “scambio culturale”), evitando il lieto fine, Proyas avrebbe sfiorato il capolavoro nella moltiplicazione delle riflessioni psico-sociologiche sul genere umano.