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TRAMA
Ciad, 2006. Dopo una guerra civile durata quarantacinque anni, la radio annuncia che la commissione “Giustizia e Verità” ha appena concesso l’amnistia ai criminali di guerra. Sconvolto dalla notizia, Gumar Abatcha ordina a suo nipote Atim, un giovane di sedici anni, di rintracciare l’uomo che ha ucciso suo padre e vendicarsi. Atim obbedisce e, armato della pistola del padre, va in cerca dell’uomo che lo ha reso orfano.
RECENSIONI
Troppo spesso ci capita di rinchiudere il cinema in definizioni che, per quanto suggestive e potenti, rischiano di mettere in ombra o peggio occultare uno dei suoi aspetti più impressionanti: la capacità di “fare mondo”. Le etichette di “cinema come linguaggio” o “discorso dello sguardo” finiscono infatti per spostare l’accento sul senso che le immagini acquistano dopo essere passate attraverso l’obiettivo della macchina da presa. Ma esiste un’altra dimensione che il cinema riesce a attualizzare: quella della creazione di un mondo, della presentificazione di un universo visivo dotato di una consistenza semantica paragonabile a quella reale. Non si tratta ovviamente di un realismo ingenuo o al contrario esasperato, ma della neutralizzazione dei codici spettacolari che predispongono la realtà ad un uso finzionale. Daratt (il titolo significa “stagione secca”) è proprio questo: un’immersione in un cinema-mondo che sbriciola, rendendola letteralmente insensata, la narrazione del reale, la sua riduzione a discorso finzionale, a parabola. Poiché di fatto è la vendetta stessa a risultare un’irricevibile costruzione narrativa: il solo pensiero che un gesto sia in grado di saturarne un altro (la riparazione del torto subito) chiudendone il senso e facendo giustizia rappresenta il trionfo ipocrita della finzione. Una costruzione consolatoria che appartiene più all’ordine della fantasia che a quello del reale. “La realtà è irriducibilmente complessa”, ci dice lo splendido film di Mahamat-Saleh Haroun: si può partire con un’idea in mente e vedersela sgretolare davanti sotto i colpi inesorabili dell’esperienza, essere armati da un accecante desiderio di vendetta e trovarsi disarmati di fronte all’inerme fragilità della colpa. Atim, il giovane orfanello inviato in spedizione punitiva dal nonno cieco, vive sulla propria pelle la destabilizzante discrepanza tra la semplificazione morale e la problematicità dell’esperienza. E noi con lui viviamo un’esperienza cinematografica analoga: vediamo sbriciolarsi sotto i nostri occhi la fallacia di un programma narrativo elementare ed emergere progressivamente, ineluttabilmente, la scontrosa contraddittorietà di un cinema che alle scorciatoie del raccontino consolatorio preferisce la sabbiosa incoerenza della realtà. Scelta quanto mai sovversiva, dal momento che la realtà del Ciad (e non solo) predilige di gran lunga la soluzione conciliante dell’amnistia indifferenziata al confronto gravoso e doloroso con la singola attribuzione di responsabilità. E scelta quanto mai coraggiosa: attori non professionisti, rinuncia alla musica di commento, (quasi) totale assenza di retorica filmica e un finale che, contrariamente a quanto è stato detto e scritto, è molto più complicato della formuletta magica “perdono” (esatto contraltare della punizione): un doppio sparo in aria che, anziché giustiziare l’uomo in nome della vendetta, giustizia la vendetta sbarazzandosi consapevolmente della legge dei padri. Premio Speciale della Giuria al Festival di Venezia 2006. Vivaddio una pellicola sfuggita alle grinfie dei doppiatori!

Non posso che aggiungermi al coro di lodi unanime per il bellissimo Daratt. Oltre alla stratificazione concettuale esposta qui sopra, il film di Mahamat-Saleh Haroun vibra nel profondo sul piano metaforico: Atim si muove in uno scenario sovradeterminato perché non ha mai visto il padre, assassinato prima della nascita, ma deve comunque servire la sua memoria. E’ una premessa che rimanda direttamente al dato trascendente e alla componente stregonesca che, varcato il terzo millennio, continua a dominare certe società in filigrana. Il giovane uomo, anziché approcciare i segnali della modernità, si rivolge verso il cielo: è in quella direzione che esplodono due spari, ovvero i colpi con cui lassù Atim uccide suo padre e quaggiù sventra la gabbia della tradizione. Non a caso la figura divinatoria primaria, l’anziano nonno cieco che di fatto innesca l’intreccio, risulta infine ingannato: nella finta esecuzione di Nassara c’è un conto che viene saldato (il panettiere ripercorre il calvario della sua antica vittima – la spoliazione, la pistola alla nuca – ma evita il solo decesso: a livello interiore, c’è davvero differenza?), il sovrumano è finalmente sconfitto. Quindi l’ambiguo dialogo finale: Atim è un uomo vero perché la sua mano non ha tremato nell’infliggere la vita. Dietro alla memorabile sequenza conclusiva, però, c’è un film tirato e compatto che fa della dialettica vita/morte la sua linfa basilare; nel focolare di Nassara, il ragazzo trova la propria situazione potenzialmente rovesciata, ovvero se compirà la vendetta causerà la nascita di un altro figlio senza genitore. Arrivando con una pistola tra le mani, egli si ritrova presto a modellare la farina: una costante figurativa, il pane e le armi (sostentamento e violenza), che segue coerentemente l’ordito narrativo e introduce alla sua esasperazione. Atim trascura il lievito e sbaglia l’impasto, così come non si decide a premere il grilletto; ma lentamente, con gradualità sotterranea, apprende accuratamente l’arte della panificazione fino alla totale autosufficienza. Come da predizione: “Farò di te un grande panettiere”. E’ il pane che vince, la pistola riposta, la scelta è già fatta. Conquista pienamente l’intenso ricamo simbolico e, in virtù della continua altalena tra sopravvivenza e sua negazione, supera scioltamente alcune lievi semplificazioni (il ruolo marginale dell’amico, Nassara che distribuisce i pani ai bambini; un’esclamazione figurativa, quasi troppo urgente, per sgretolare subito la malvagità del carnefice) e non sciupa minimamente i perenni impliciti politici: il Ciad sgozzato dalla guerra convive con le cicatrici, Atim tocca le malie di sangue ormai intrinseche (la pistola sul pulmann, la furia dei militari) e si immerge nel nodoso conflitto tra contemporaneo e tradizione (la moglie incinta che si toglie il velo – i dialoghi impunemente liberi – la timida schermaglia erotica tra i due). All’insegna di una semplicità spoglia: osservare attentamente, voltandosi indietro, la disarmante naturalezza dei titoli di testa che si disegnano sul corpo del protagonista, immerso nel paesaggio, già impegnato a sfilare e riporre via la propria giacca militare.
