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DANTE

TRAMA

Nel 1350, Giovanni Boccaccio si reca a Ravenna per consegnare 10 fiorini d’oro a Beatrice, figlia di Dante Alighieri, come compenso della sua morte e dell’esilio. Lungo il percorso ricostruisce la storia dell’essere umano che fu Dante.

 

RECENSIONI

Erano anni che Pupi Avati inseguiva un progetto cinematografico su Dante Alighieri e lo realizza sulla scia del suo libro “L’alta Fantasia, il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante”, in cui è Boccaccio, primo dantista che la storia ricordi, ad accompagnarci in alcune tappe della vita di Dante attraverso un on the road nell’Italia del 1300. Il fine del viaggio è quello di regolare i conti con un passato ingiusto - in cui Dante fu esiliato e costretto ad abbandonare la sua amata Firenze - tramite un gesto poco più che simbolico di cui Boccaccio si fa messaggero: la consegna di dieci fiorini d’oro zecchino a Beatrice, l’unica figlia di Dante ancora in vita, fattasi suora a Ravenna. Lo spunto consente un’immersione nell’Italia ancora provata dall’epidemia di peste bubbonica, tramite varie tappe che permettono di rievocare figure ed eventi decisivi della vita di Dante. La scelta si rivela felice perché, oltre a una cura formale attenta ai riferimenti pittorici dell’epoca, trova un modo originale per approcciare una materia complessa che una biografia tradizionale avrebbe sicuramente appiattito. Pupi Avati non si piega al timore reverenziale nei confronti del sommo poeta considerato il padre della lingua italiana, ma decide di farlo scendere dal piedistallo, di renderlo umano; lo mostra quindi innamorato ma incapace di tradurre in azione il suo sentimento, viscerale nelle scelte politiche e nel fervore anticlericale, sanguigno nelle amicizie, intento a defecare in battaglia sul bordo del fiume, insomma, “uno di noi”. Anche questa una scelta felice, in grado di accorciare le distanze e di offrire uno sguardo inedito e singolare.

Il genere horror, da sempre nelle corde del regista bolognese, è trasversale al viaggio, nel fetore che si immagina e si respira, nelle unghie nere e nella sporcizia sempre evidenti, ma anche in alcuni dettagli: una bambola guercia che si tramanda di generazione in generazione, i sotterranei oscuri dove vengono accatastati i morti di peste che non sono stati riconosciuti, una Beatrice tutt’altro che virginale e quasi icona pop che mangia, non solo in senso metaforico, il cuore di Dante. Tentativi riusciti di celebrare il noto con interessante soggettività. Se quindi l’insieme risulta originale e a suo modo efficace, anche nel non citare mai la “Divina Commedia” ma limitandosi a evocarla, non sempre il passaggio dalle lodevoli intenzioni alla scansione delle immagini arriva però fluido. La necessaria sintesi impone infatti passaggi a volte bruschi (il rapporto di amicizia con Guido Cavalcanti), altri poco chiari senza conoscere già i fatti storici, altri ancora un po’ didascalici nella necessaria ma didattica elencazione di nomi, date ed eventi, con un doppiaggio spesso stridente nella sua asettica innaturalezza. A dominare è però l’approccio personale del regista e la sua capacità di spiazzare evitando le banalità del noto con sorprendente vitalità.