I.Rimanere nel dubbio
Nell’ultimo paragrafo della recensione dedicata a Suspiria, Gianluca Pelleschi scrive: “Ma alla fine, è bello anche rimanere nel dubbio e lasciarsi circuire da centocinquanta minuti di immagini e suggestioni tematiche sfuggenti quanto potenti”. Parto da questa conclusione, che potrebbe ingannevolmente suonare come rassegnata resa critica, per sviluppare alcuni punti che collegano il Suspiria di Guadagnino a tre film fondamentali per l’individuazione di un’estetica cinematografica pienamente e consapevolmente contemporanea. In questo caso l’aggettivo “contemporanea” riveste un’importanza decisiva, poiché qualifica oggetti filmici molto distanti tra loro dal punto di vista tematico e contenutistico, riservando alla sola indicazione cronologica il cuore del discorso. I film tirati in ballo, insomma, non presuppongono alcun tipo di filiazione esplicita o altri gradi di parentela intertestuale, al di là di un’accidentale (e proprio per questo tutt’altro che fortuita) elaborazione della materia rappresentata. Sono semplicemente film che, a mio avviso, indicano con sufficiente chiarezza una configurazione di fondo capace di rompere i rapporti con altre forme di estetica cinematografica dominanti nei decenni passati.
La mia idea di base è che Suspiria, in accidentale combutta con altri tre titoli usciti tra il 2016 e il 2018, sancisca il superamento definitivo del cosiddetto cinema della modernità/postmodernità, sostituendo le vecchie matrici compositive con un modello estetico pienamente radicato nel nostro contesto storico. Non intendo formulare ipotesi sul perché questo sia avvenuto né perché sia avvenuto solamente adesso, mi limito più cautamente a prendere atto dell’avvenuto cambiamento di paradigma. La tesi che avanzo è fortemente arbitraria, tutta da dimostrare e, soprattutto, da convalidare o smentire nei prossimi anni, ma l’impressione che mi ha colpito durante la visione del film di Guadagnino è stata troppo aggressiva e acuminata perché la potessi lasciare nel gigantesco novero delle cose non dette. Aggiungo inoltre che questo cambio di paradigma non riguarda esclusivamente i principi compositivi adottati dai titoli in questione, ma, e questo è l’autentico rivolgimento epocale, interessa prevalentemente la concezione dello spettatore implicata da questi film. Siamo insomma di fronte a opere che trasformano radicalmente la posizione dello spettatore e i compiti tradizionalmente assegnatigli per la corretta lettura del testo e la partecipazione emotiva alla visione.
II. Demoni, madri, climax e imperi interiori
Sfodero i tre titoli: The Neon Demon (2016), Madre! (2017) e Climax (2018). Dal punto di vista squisitamente narrativo, sono, proprio come il Suspiria di Guadagnino, tre film letteralmente deliranti: muovono tutti da un’impronta apparentemente realistica per uscire con violenza dal solco della verosimiglianza e deragliare/sfociare apertamente nel delirio, nell’orrore e nella fantasmagoria allucinata. Se The Neon Demon attraversa lo specchio con passo fiabesco e lunare, Madre! lo frantuma con andatura simbolica e parossistica, mentre Climax e Suspiria lo sbriciolano con coreografico furore. L’ambiguità sembrerebbe essere il loro minimo comune denominatore, ma basta riflettere un po’ per rendersi conto che si tratta di un concetto che non basta più a rendere conto dell’esperienza spettatoriale. C’è qualcosa in più della semplice ambiguità in questi film, qualcosa che afferisce alla sfera dell’enigma, dell’aporia, qualcosa che provoca l’impasse razionale dello spettatore: abbiamo un bel dare risposte esplicative a scoppio ritardato, il fatto fondamentale risiede nella bruciante sensazione di stallo della comprensione che si prova durante la visione. Questi film attengono alla sfera dell’incomprensibile: non sono soltanto ambigui, allusivi o criptici, ma in molti frangenti diventano francamente inintelligibili.
Per quale motivo sostengo dunque che sanciscono il superamento definitivo del cinema moderno/postmoderno? Semplice, perché l’ambiguità non basta più a rendere conto dell’esperienza filmica: questi titoli non si accontentano più di suggerire la presenza di due o più letture/interpretazioni concomitanti e ugualmente legittime, ma generano sconcerto e sbigottimento, creano un vero e proprio cortocircuito interpretativo. “Che cosa stiamo vedendo?” è il solo quesito che siamo in grado di formulare durante più momenti della visione, la sola reazione “sensata” che siamo in grado di opporre al vortice audiovisivo che ci investe e sommerge. A dirla tutta, ci sarebbe un illustre antecedente per questo poker destabilizzante, quell’INLAND EMPIRE che è arrivato alle stesse dislocanti conclusioni – inspiegabilità irriducibile – con dieci anni di anticipo. A suo tempo Luca Pacilio ce lo aveva detto a chiare note: “INLAND EMPIRE è un capolavoro immane, un film MAIUSCOLO con il quale si faranno i conti per decenni”. Eppure, così in anticipo sui tempi, il film di Lynch non faceva primavera, rimaneva un caso isolato, punta avanzatissima di qualcosa che si poteva solamente supporre, vaticinare con profetica esaltazione. Ed è esattamente quanto fatto da Pacilio, si legga per esempio questo passaggio: “Ci baloccheremo a lungo con INLAND EMPIRE, lo guarderemo e riguarderemo, seguiremo tutte le piste di questo mistero spudorato, ricostruiremo alla perfezione tutti i meccanismi che lo governano nella consapevolezza che l’impressione scaturita dalle supreme immagini del più grande cineasta vivente (sì, lo è) rimarrà imperturbata dalla nostra sciocca (ma inevitabile) voglia di ricomporre il puzzle”.
Altri film recenti che presentano qualità analoghe a quelli chiamati in causa sono Under the Skin (2013) di Jonathan Glazer e The End (2016) di Guillaume Nicloux. Non li includo direttamente nel discorso per esigenze di linearità argomentativa, ma i loro tratti distintivi (andamento narrativo delirante, sensorialità esasperata, enigmaticità disturbante) sono a tutti gli effetti assimilabili a quelli posseduti dai titoli presi in esame.
III. Promesse non mantenute
La “sciocca (ma inevitabile) voglia di ricomporre il puzzle” di cui parla Pacilio ci porta dritti al nucleo incandescente della questione: questi film non sollecitano soltanto la volontà tutto sommato ordinaria di decifrare il contenuto delle immagini, di semplificare quel tanto che basta a rappresentarsi le cose, ma provocano l’esigenza bruciante di fornire delle risposte, di porre un freno razionale al magma caotico che ci travolge. Detto altrimenti, questi film reclamano con perentorietà risposte sensate da parte dello spettatore, esigono la nostra complicità assoluta. Si pensi al carattere di guida dei personaggi interpretati dai Elle Fanning in The Neon Demon, Jennifer Lawrence in Madre! e Dakota Johnson in Suspiria: sono tre figure femminili che orientano prepotentemente la narrazione e pretendono l’identificazione spettatoriale. Quello che interessa a loro interessa anche noi, sono loro a determinare il punto di vista della vicenda rappresentata sullo schermo (discorso solo in parte diverso per Climax, perché, pur essendo un film corale, fa di tutti i personaggi messi in scena un unico agente collettivo, sicché il processo di immedesimazione è semplicemente disseminato, restando invariata la dinamica psicologica fondamentale). Il fatto è che queste promesse di senso compiuto (il rapporto tra una giovane modella e il mondo della moda, la gravidanza di una donna messa a dura prova dalla vanità del marito, l’allestimento di spettacoli di danza) vengono intralciate da elementi di disturbo così invadenti e incontenibili da risultare semplicemente impraticabili. E anche i presunti sottotesti (iconico nel film di Refn, mistico in quello di Aronofsky, lisergico in quello di Noé e politico in quello di Guadagnino) non sono minimamente in grado di dissipare il coefficiente di astrusità delle immagini. Tutto ciò, a maggior ragione, vale per INLAND EMPIRE, film inesplicabile per eccellenza.
Ma, ancora più cruciale delle promesse di significato non mantenute, è la ricaduta psicologica che questi film-performance hanno sullo spettatore: la frustrazione. Allo spettatore è richiesto un continuo sforzo congetturale destinato a fallire, gli si chiede di formulare ipotesi, abbozzi interpretativi, conati esplicativi immancabilmente votati allo scacco: tutte le piste più promettenti per la sua indagine finiscono in vicoli ciechi. È un’esplorazione in cui ogni bussola si rivela tanto seducente quanto inaffidabile: più si industria nella ricerca di un senso compiuto (e molti indizi sembrerebbero metterlo sulla buona strada), più si trova smarrito nel labirinto filmico. Tocca ripartire da zero ogni volta, sempre più affaticati e scoraggiati, finché la frustrazione ha la meglio. Eccoci al punto cruciale della riflessione: lo spettatore postulato da questi film non è più un soggetto ingaggiato in una cooperazione interpretativa, in una prestazione intellettuale che lo vede protagonista di un’avventura ermeneutica quasi eroica al termine della quale avrà conquistato la vetta del significato ultimo, ma uno spettatore metodicamente e dolorosamente frustrato. O meglio prima eccitato e poi frustrato. La ricerca del Sacro Graal del senso si rivela infruttuosa per un semplice motivo: il significato ultimo non esiste, era solo un miraggio. Lo hai cercato invano.
IV. Psicoperformance
Osservati da questo punto di vista, i titoli di cui ci stiamo occupando, come accennato nel paragrafo precedente, rappresentano a tutti gli effetti film-performance. Ma con una decisiva precisazione: la performance non è tanto quella raffigurata sullo schermo (gli shooting fotografici o le sfilate di The Neon Demon, il parossistico happening mistico di Madre!, le spettacolari prove coreografiche di Suspiria o Climax), ma quella che avviene nella mente dello spettatore. La performance filmica, insomma, non è altro che una raffigurazione (ma sarebbe più appropriato definirla figurativizzazione) di quella che si produce nell’interiorità dello spettatore. E, inoltre, non mi pare affatto irrilevante che tutti questi film abbiano un disegno narrativo in bilico tra apertura finale e composizione ad anello: questo strano esitare tra apertura e chiusura riflette esattamente il falso movimento che ha luogo nella mente dell’osservatore. Il mito seducente della partecipazione dello spettatore al completamento dell’opera non ha più nulla di prometeico, è diventato soltanto una derisoria fatica di Sisifo. INLAND EMPIRE si rivela decisivo in questo senso: a suo tempo ho dissipato tutte le energie mentali di cui disponevo per “ricomporre il puzzle”, sperimentando sulla mia pelle la sconfortante inutilità di qualsiasi sforzo esegetico. Stavo semplicemente tentando di applicare un paradigma superato a un film che faceva proprio del superamento di quel paradigma la propria ragione d’essere: la Lost Girl era senza dubbio meno smarrita di me.
Ma allora questi film, che a mio avviso costituiscono gli esempi più intraprendenti e spregiudicati dell’estetica cinematografica contemporanea, sono soltanto giganteschi vuoti a perdere? Sono trappole per gli spettatori che si crogiolano nel loro sadico cinismo? Mi piacerebbe rispondere di sì, ma non credo sia la risposta giusta. Mi pare, piuttosto, che in questi agisca un meccanismo di compensazione perversamente efficace: ciò che essi promettono senza mantenere sul piano del senso compiuto viene ampiamente controbilanciato da squarci cinematografici di irresistibile presa sensoriale. Sfido chiunque, giusto per menzionare la prima sequenza che mi viene in mente, a non riconoscere nel montaggio alternato della danza spaccaossa di Suspiria uno dei momenti più visceralmente coinvolgenti visti al cinema negli ultimi dieci anni (per trovare qualcosa di simile tocca risalire alla stagione della Nouvelle Trouille, con À l’intérieur e Martyrs). Mi pare insomma che in questi titoli la ferita inferta allo spettatore dalla frustrazione del senso venga abbondantemente compensata da un godimento sensoriale altrettanto appagante. Il risarcimento sensoriale riscatta la frustrazione del senso. In fondo non è anche quello che Pelleschi sostiene con invidiabile sintesi nella sua recensione? “Ma alla fine, è bello anche rimanere nel dubbio e lasciarsi circuire da centocinquanta minuti di immagini e suggestioni tematiche sfuggenti quanto potenti“. Uno spettatore frustrato e circuito, certo, ma proprio per questo uno spettatore gaudente.
Un ringraziamento a Elisa Schiavi per il prezioso riferimento a Under the Skin e non solo.