TRAMA
Coinvolti in un incidente stradale, due fratellini vengono morsi da uno strano animale.
RECENSIONI
La chiusura della trilogia SCREAM sembrava essere lultimo film di Wes Craven: approdato alla parodia totale ed incondizionata, essendo lopera stessa una (auto)citazione, di fronte alla nudità del meccanismo scenico, non riuscivamo ad immaginare alcuna mossa successiva. Invece eccolo qua: a sessantacinque anni suonati, il regista impugna il mito del licantropo e gli dona nuovo soffio vitale nellunico modo possibile. Di fronte ad una fiaba nera tanto demodé da risultare apertamente assurda (già immortalata da ben altro cinema LUOMO LUPO di George Waggner, 1940), scegliere un registro serioso vorrebbe dire ingoiare una lametta: Craven non ci pensa nemmeno, resta un bimbo capriccioso che si balocca con il proprio trenino giocattolo ed orgoglioso di esserlo. Fin dallinizio (lincidente sulla Mulholland Drive) limpeto citazionistico è un frullato dirompente di nomi e situazioni (dal Frank Cotton di HELLRAISER che compare sottoforma di statua sino allaperto sarcasmo su Ashton Kutcher) e la trama viene declinata in maniera solo apparentemente classica, insinuando molteplici livelli di lettura: gli spaccati di vita liceale grondano allusioni (la gara di wrestling di Jimmy è irriverente parodia: lo sport è una cavolata, il maschio è sempre macho, la donna oggetto idiota pronta ad applaudire il vincitore), se il mondo dello spettacolo è pieno di lupi mannari (non solo per metafora) cosa volete che siano un paio di autentici licantropi? Come sempre centrale la scrittura di Williamson, esperto smontatore di meccanismi, che riporta i tipici vezzi della sua firma: dalla complicità metalinguistica (i protagonisti, inseguiti dal lupo mannaro, si rifugiano dietro alleffige del lupo mannaro) fino al consapevole ribaltamento dello stereotipo (E finita? chiede Ellie, quando appare evidente il contrario), senza dimenticare una spruzzata di sano scetticismo narrativo come in SCREAM 2 si dichiarava che Il sequel è sempre inferiore alloriginale qui Jimmy, dopo aver imperniato le sue indagini su testi di licantropia, attesta apertamente linutilità di quei libri. Dunque il solito Craven: apre spassose parentesi (la folla ululante al concerto), sfiora altre storie possibili senza approfondirle (il cameo della veggente: Io ho il dono), regala un quarto dora di risate nella sequenza più divertente dellultimo periodo lequivoco tra Jimmy ed il giovane gay, anchegli maledetto. Non manca il gioco attoriale sulla calda sensualità di Christina Ricci che, colpita dallinsolito appeal sessuale della licantropia (metasensualità?), in lunghe sequenze di nero vestita sembra tornare alla sua vecchia famiglia; tutto il cast si presta allo scherzo con tono sincero e divertito.
Certo, si può facilmente sostenere che Craven ormai viva di rendita su uno stile ampiamente consolidato: il suo antihorror gore ed ironia ha sfondato ovunque evocando goffissime imitazioni ed in CURSED tutto sommato non si smuove di una virgola. Occorre altresì ammettere che, se tutti fossero come il regista di Cleveland, il genere sarebbe presto morto nella gabbia della citazione (a s/proposito: nellimpervia altalena tra cervella e risate mi sento di indicare il compromesso più fruttuoso nel fighissimo CABIN FEVER di Eli Roth); ma daltra parte, nellepoca cui il brivido si ritrova mestamente numerato (THE RING 2, THE EYE 2, THE...), la mano birichina di Craven è quasi un faro nella notte.

L’ultimo lavoro di Wes Craven è un film già “maledetto” in partenza, marchiato da una gestazione alquanto tormentata: la prima stesura dello script siglato da Sean Hood (Halloween: Resurrection) e Tony Gayton (The Salton Sea) viene abbandonata e affidata al solito Kevin “Scream series” Williamson, anche il glorioso Rick Baker abdica al progetto per problemi artistico-produttivi con gli executives della Miramax. E’ ancora una volta il binomio Craven-Williamson a farsi carico di un prodotto che, con somma evidenza, non possiede più quelle annunciate prerogative di opera che avrebbe aggiunto un quid di innovativo al filone licantropico, e si configura oramai come fardello di cui sgravarsi il più presto possibile. Inoltre la pellicola giunge in Italia funestata da assurdi emendamenti e rimaneggiamenti vari i quali non fanno altro che locupletare quel corredo già abbastanza completo di perplessità che ammantava le nostre aspettative. Tutto ciò nell’attesa dell’ennesimo fantomatico dvd uncut che restituisca Cursed alla sua primeva integrità (postille di questa risma se ne sprecano sempre a tonnellate). E tuttavia, guardando il film, sorge un lecito sospetto sul fatto che il tenore di fondo di Cursed possa variare poco anche a mutilazioni reintegrate.
Cursed, nonostante i demeriti estetici (c’è una sola sequenza veramente efficace in tutto il film, girata in un garage e negli interni di un ascensore, in cui la disperata famelicità del lupo mannaro diviene quasi palpabile), prescindendo dai confronti pedestri con l’effettistica di Rob Bottin (L’ululato) e dello stesso Baker (Un lupo mannaro americano a Londra), poiché fortunatamente il concetto di metamorfosi lato sensu non è l’epicentro filmico, impone una riflessione retrospettiva sulla frastagliata cinematografia craveniana. Un tempo Craven girava pellicole seminali come L’ultima casa a sinistra, Le colline hanno gli occhi e Benedizione mortale, in cui dietro la sanguinolente veste formale del rape and revenge (veste che peraltro fungeva da rinnovato abito di un vero e proprio teatro della crudeltà in cui il monstrum era null’altro che l’essere umano) si celava il putrido cadavere della borghesia americana deturpato dal desiderio parricida di quei figli che essa stessa aveva generato. A Nightmare on Elm Street (da cui la serie di successo che tutti conosciamo) costituì un punto di svolta del suo cinema poiché Craven, attingendo all’immaginario orrorifico collettivo, si affidò alla paura archetipica del boogey man creando uno dei personaggi visionariamente (e visivamente) più riusciti dai tempi della Universal: Fred Krueger. In seguito il cineasta di Cleveland si dimostra fonte inesauribile di sperimentazione esplorando i farraginosi territori dell’antropologia (Il serpente e l’arcobaleno) e della metaforizzazione specificamente politica (La casa nera). Dopodiché, sul finire degli anni ’90, rimosso l’innominabile episodio di Vampiro a Brooklyn, Craven incrocia la strada del metalinguaggio gettando le basi, a partire da Scream, per il suo discorso sul meta-horror in cui anche il genere orrorifico diviene il luogo geometrico per la divagazione/deriva metacinematografica. Giocattolo che come ogni meccanismo ludico ha le sue regole, i suoi spazi, i suoi tempi, i suoi contesti.
L’impressione con Cursed è che, al di là di ogni ignobile politique des auteurs, Craven non riesca ad uscire dalla gabbia del meta-horror (per certi versi antiorrorifico) che egli stesso ha costruito, riproducendo implacabilmente (questa forse è la reale maledizione) gli stessi stilemi fatti di citazioni più o meno riconoscibili, di costruzioni banalmente “abissali” con i lupi mannari che si nascondono dietro la statua di cera di Lon Chaney Jr. (è il meta-horror craveniano medesimo che dopo essersi divertito a smontare e rimontare gli ingranaggi dell’horror tradizionale ne mummifica il meccanismo configurandosi come asfittico e incerato museo degli orrori), e di ingenue metafore come la bestialità licantropica che si annida tra le fila del jet-set hollywoodiano, e millantando uno scriteriato teen-horror (attori quali Joshua Jackson, Michael Rosenbaum e Scott Baio sono riferimenti inequivocabili) per œuvre intellectuelle (e viceversa).
