TRAMA
Sei persone si ritrovano rinchiuse in un gigantesco cubo articolato in migliaia di stanze della stessa forma, disseminate di trappole mortali, e si mettono alla disperata ricerca di una via d’uscita…
RECENSIONI
Esordio alla regia dell’italo-canadese Vincenzo Natali, Cube ostenta spavaldo la propria povertà di mezzi, facendo dell’autolimitazione scenografica (unica?) ragion d’essere, limite e insieme alibi. Più che una “sfida”, infatti, che fu ed è il vocabolo più (ab)usato per definirlo, questo fantathriller vagamente metafisico sembra possedere tutti i crismi del ricatto: oggettivamente pretenzioso e colmo di difetti, Cube, in virtù di una singolare castità della messinscena (una stanza + sette attori ben presto ridotti a cinque), riesce a sublimare le proprie carenze e a farsi perdonare (quasi) tutto. Dotando infatti la propria pellicola di un’aura da B-Movie che non può non mandare in sollucchero gli aficionados di certa science fiction, Natali riesce con indubbio merito ad evitare eccessivi cali di tensione e a trascinarsi con angosciante e claustrofobica dignità lungo novanta minuti di personaggi stereotipati, dialoghi inconcludenti e palesi lacune/forzature narrative, tutti difetti che riesce a confinare sullo sfondo della visione, fuori fuoco, ben celati da una valida idea di partenza e da una qual certa padronanza del mezzo. Ricatto riuscito, dunque, ma il varco dell’opera seconda è quantomai atteso e sa terribilmente di “necessario”...
Il Cubo di Rubik dell'esordiente Natali funziona come incubo orrorifico, come allegoria del percorso esistenziale dell'essere umano, come microcosmo del sistema sociale, come interrogazione etico-filosofica e come seduta psicanalitica. L'ingegnosa idea del regista canadese (dalle evidenti origini italiane) interseca, sovrappone e fa correre paralleli questi diversi "colori" su di una struttura portante "solida" (il genere) che non disdegna le aperture in uno spazio dai contorni meno definiti (l'interzona fra il cubo e l'esterno), per un'esplorazione più azzardata dell'inconscio. In una stanza viene martoriata la carne, in quelle accanto s'incrina il sistema nervoso, vacillano le proprie sicurezze, si perde la ragione, s'acquista l'angosciosa consapevolezza del vuoto che ci circonda. Tutti i personaggi, prigione di se stessi, hanno il nome di famosi istituti di detenzione, vengono identificati in un preciso ruolo-simbolo (il medico, il coraggioso padre di famiglia, il tecnico, la scienziata, il molle impiegato, il ritardato mentale) e si ritrovano di fronte ad un gigantesco rebus, ad un test di sopravvivenza dove l'evoluzione richiede una sinergia fra resistenza fisica, elaborazione mentale e umana compassione. Purgatorio per quali peccati? Esiste senso di colpa in mancanza di memoria? Cosa c'è al di fuori di noi stessi? Dio o il Caso beffardo, il complotto o un Sistema senza cervello? L'incubo cresce in assenza di spiegazioni, nella certezza dell'equivoco senza macchinazione, nell'impotenza della parte che ignora il tutto. Il labirinto mette angoscia nonostante (e forse proprio per) la sua geometria, navigabile con coordinate e permutazioni. Il ponte per l'eternità, però, s'individua con il retto agire, rispettando la vita umana in tutte le sue espressioni, consapevoli della finitudine e non più schiavi del movimento ossesso che rinnega l'introspezione (la salvezza è più vicina di quel che s'immagini). Il cubo di Natali stimola tutte queste riflessioni, peccato che, a volte, le urli, le nasconda dietro una cerebrale sospensione, s'appoggi a meno intriganti soluzioni narrative (è più carente nei dialoghi e nelle dinamiche psicologiche).