Commedia, Recensione

CROOKLYN

TRAMA

Anni settanta, Brooklyn: Woody è un musicista nero disoccupato. Sua moglie deve mandare avanti una nidiata di cinque figli, fra cui Troy è l’unica femmina.

RECENSIONI

Più sitcom che cronaca familiare, più melodramma che incedere drammatico, più rievocazione nostalgica ed affettuosa che commedia ricca d’ironia. Quest’opera trascurata del regista afroamericano (in Italia è sbarcata solo sul mercato dell’homevideo) è girata esclusivamente fra quattro mura e una strada di Brooklyn (il titolo è un gioco di parole dove “crook” significa imbroglione), se si esclude l’escursione di Troy a sud, dai ricchi zii, deformati per venti minuti (!) in soggettiva, con una lente anamorfica che li “allunga” perché alla bambina sono poco simpatici. Il soggetto è opera della sorella del regista, Joie Susannah Lee, la sceneggiatura è firmata a sei mani con il fratello Cinqué, tutti e tre sono impegnati nella produzione e si ritagliano un piccolo ruolo: il racconto acquista una piega semi-autobiografica e finisce per concentrarsi sulla figura dell’unica femmina fra cinque figli litigiosi, sui suoi problemi di crescita (ha poco seno), di carattere (a molti è antipatica ma è legatissima alla madre) e di percorso esistenziale tout-court (arriva puntuale la “tragedia” alla Spike Lee, vale a dire la tempesta improvvisa in un mare tranquillo e divertito). Neppure con pochi ambienti a disposizione il regista rinuncia ai barocchismi estetici (esteriori?) della macchina da presa ma alcune delle sue strambe invenzioni vanno a segno (Lee si ritaglia il ruolo di un tossico che, “fatto”, cammina a testa in giù per la strada). Le carenze più palesi stanno in una trama esile e in un’operazione di nostalgia poco pregnante, sottotono come l’utilizzo della colonna sonora di quegli anni, anche se, sui titoli di coda, si attraversano le rotaie del programma musicale “Soul Train”. Il talento, d’altra parte, è inconfutabile di fronte alla caratterizzazione e direzione di questi bambini, assoluti protagonisti.